lunedì 28 settembre 2009

Da: "Il Girone delle polveri sottili" Capitolo 2°

DA “IL GIRONE DELLE POLVERI SOTTILI”
Di Stefano Montanari
Ed .Macro Edizioni
1° edizione gennaio 2008
CAPITOLO 2

Invidiare qualcuno non fa parte del mio repertorio di difetti, che pure sono tanti a detta di chi è convinto di conoscermi e sono ancora di più per chi mi conosce sul serio, cioè me stesso. Tra questi difetti l’invidia non c’è. C’è, invece, una malinconica ammirazione per coloro che, magari senza accorgersi della loro presunzione, dicono: “Se rinascessi rifarei esattamente quello che ho fatto”.Io, no. Forse qualcosa rifarei, ma ben poco. E la prima cosa che non rifarei per tutto l’oro del mondo è ficcarmi in testa un catino da barbiere come fece Don chisciotte e stivare sotto quel catino l’idea che sia mio dovere salvare il mondo, un’idea balzana che non riesco a cavarmi dal cervello. Come le vecchiette cui il boy scout vuole a tutti i costi far attraversare la strada anche se quelle vorrebbero stare dove sono, il mondo come lo concepiamo noi non ha alcuna intenzione di essere salvato. Eppure io non so resistere alla tentazione e mi manca il coraggio di essere vile.
Ci provo, ma poi mi attraversa la testa un’immagine di bambini, un’immagine che non so dire se sia la fotografia di qualcosa di reale o un iperrealtà che mi si è costruita dentro. Tanti anni fa per motivi di lavoro mi sono trovato a frequentare il reparto di Oncologia Pediatrica di un grande ospedale. Sono entrato. C’era un tappeto su cui stavano seduti dei bambini con un cranio ossuto e pelato da cui sporgevano oscenamente le sfere degli occhi. Giocavano? Alle pareti, i loro disegni, apparentemente uguali a quelli di tutti gli altri bambini della loro età, ammesso che quelli un’età ce l’avessero. Però, se non si faceva in tempo a distogliere lo sguardo, a scappare, dentro quei disegni c’erano i geroglifici evidentissimi, senza bisogno di alcuna Pietra di Rosetta per decifrarli, di un mondo in cui non esisteva altro che sofferenza, una sofferenza più inutile di qualsiasi altra sofferenza perché avrebbe condotto solo a morte senza un attimo che non fosse volto a quel fine o, forse peggio, avrebbe condotto a sofferenza ancora più cruda, più prolissa della sua stucchevole incomprensibilità.
Non era questo che cozzava di più contro il cervello: era la normalità. Tutto questo per loro, per quegli esseri burocraticamente classificabili come viventi, era normale. Per loro il mondo era quello e basta.
Poi, altri cinque passi e si entrava nel girone appena più profondo, nella tappa ineluttabilmente successiva: quella dei bambini che lo stadio del tappeto e dei disegni l’avevano superata, quello più avanti, quelli che non si potevano più staccare dal letto cui erano incatenati dai tubi da macchinette ronzanti, le mie, che li tenevano beffardamente in vita. Pena: la morte, se mai pena possa essere. Vita: che strana parola sembrava allora e che sembra ora che la scrivo!
Più avanti non si andava: ciò che stava più avanti o, meglio, più in fondo all’imbuto, non era per gli occhi di quel Dante riluttante, in sedicesimo e senza Virgilio che ero io. Più avanti, c’erano i mostri, e solo gli angeli o i diavoli, indistinguibili, li potevano vedere e, chissà, toccare.
Lasciai quell’impegno in quel luogo d’orrore. Lasciai quella plaga che non sapevo accettare, fatta di ronzii meccanici, di occhi rossi troppo stanchi per sfuggire lo sguardo altrui che pure li sfuggiva,di occhi che le orbite erano inadatte a trattenere, di grottesche pentole di metallo che di tanto in tanto portavano di sotto, ormai inutile perché impossibile da tormentare, il simulacro di poca carne di quello che era appena stato una sorta di bambino, per trasferirlo in una bara bianca coperta di fiori dall’odore nauseante. Ero troppo poco attrezzato, o troppo vile senza saperlo essere fino in fondo, o chissà altro.
Solo molti anni dopo seppi che in quella succursale terrena dell’inferno, in quegli stessi momenti, c’era un’amica che allora non conoscevo ancora e che lì, con lo spirito di guerriero che poi ho sperimentato, teneva cocciutamente appeso a una sorta di vita suo figlio. E’ lei che ha voluto questo libro.
Basta così, si casca nella retorica più trita e fastidiosa, ma che cosa questo c’entri con quanto sto accingendomi a scrivere lo devo spiegare. Tutto ciò che vedevo veniva dal fato, dal caso, da Dio…Che ne posso sapere, io, da dove? Da chi? Ma veniva da entità che in qualche modo ci trascendono. Almeno credevo. Non mi ero mai posto il problema, ma quella roba veniva da fuori. Oggi, con quello che il fato, il caso, Dio o fate voi chi o che cosa mi ha fatto cascare in mano senza che io lo cercassi o lo volessi, so con certezza che, almeno in parte, i carnefici di quella macelleria raffinatissima nella sua fantasiosa e minuziosa crudeltà siamo noi, gli uomini, quelli che si autodefiniscono i Principi del Creato. Chi non vuole sapere, chiuda qui il libro.

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