lunedì 29 settembre 2008

DA "CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA'" (4° parte)

Le strane amicizie di Antonio Di Pietro

Di Pietro e D’Adamo: i fatti non lasciano spazi a dubbi: Fra i due un legame c’era e era un legame forte. Non ci sono dubbi neppure sulla “beneficenza” che Di Pietro ha ricevuto da D’Adamo in termini di prestiti senza interessi e senza condizioni per la loro restituzione, di auto, case, telefonini, vestiti, alberghi, biglietti aerei e via dicendo. E ciò rende plausibile che l’imprenditore potesse parlare liberamente con il suo amico magistrato e quindi prospettargli anche l’opportunità di avere un occhio di riguardo per colui, Pacini Battaglia, che così munificamente gli veniva incontro in un momento di grave crisi delle sue crisi commerciali. E questa – si badi bene – è soltanto un ipotesi riduttiva, valida se proprio si vuole dubitare su quanto affermato dall’ingegnere, e cioè che sia stato proprio Di Pietro ad indirizzarlo al banchiere, in quanto, presso di lui, avrebbe trovato “porte aperte”.
Di Pietro e Pacini Battaglia: l’indagine della Procura milanese a carico del faccendiere italo-svizzero venne gestita in maniera quasi esclusiva dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro: I fatti ci dicono molte cose. Ad esempio che, nell’ambito di questa conduzione personalizzata:
- Pacini Battaglia, pur raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare, non soffrì alcuna carcerazione;
- Lo stesso Pacini acquisì lo “status” di collaboratore d’ufficio guidato da Di Pietro, ma si limitò nella sostanza a confermare fatti e personaggi già emersi nell’inchiesta milanese. Nel frattempo, però, continuò nella sua opera devastante di corruzione giudiziaria e di rafforzamento del presidio giudiziario da lui creato almeno fino al 1996, come scopriranno i pubblici ministeri di Perugina;
- Nei confronti dei conti privati di Pacini Battaglia non vennero mai concluse rogatorie internazionali. Ciò è vero anche per la sua banca, la Karfinco, suo vero e principale “strumento di lavoro”;
- Molte delle rogatorie richieste vennero classificate come non urgenti e quindi di ordinaria amministrazione;
- In alcuni casi allo stesso Pacini Battaglia venne consentito, tramite il suo legale, l’avv. Lucibello, di conoscere in anticipo le tematiche che sarebbero state affrontate negli interrogatori;
- Nessun controllo venne mai svolto sulla documentazione che il banchiere versava negli atti, così che lo stesso poté anche produrre materiale artefatto o precostituito;
- Nessuna seria indagine venne mai fatta nei confronti di Roger Francio, principoale collaboratore di Pacini Battaglia;
- Nessun controllo venne mai fatto neppure sulle persone fisiche che erano terminali delle operazioni bancarie di Pacini. In questo modo non si riuscì ad individuare i beneficiari di queste operazioni fra i quali spiccano proprio i nomi di Lorenzo Necci e di tutti coloro che saranno inquisiti solo tre anni dopo dalla magistratura di La Spezia;
- Nel frattempo Pacini Battaglia sembrava interessato proseguire i suoi rapporti privilegiati col suo antico “inquisitore” divenuto ministro, liberandolo dalla presenza ingombrante di un suo collaboratore, un magistrato torinese, Mario Cicala;
D i Pietro e gli amici più cari. Esiste un lavoro giornalistico molto attento, anche se un po’ datato e molto dimenticato, che ci aiuta a capire quali fossero le frequentazioni del Tonino nazionale: le sue amicizie. E’ un’inchiesta, puntuale e mai smentita , che il giornalista Roberto Chiodi pubblicò nel 1993 sul settimanale Il Sabato . Il prezioso lavoro di Chiodi ci aiuta a capire molto. Per scoprire il mondo diciamo così “affettivo” dell’ex magistrato milanese lo useremo come traccia, integrandolo di volta in volta con gli avvenimenti successivi.
Siamo sul finire degli anni ottanta, quando nella cosiddetta” Milano da bere” Di Pietro consolida vecchie e nuove amicizie. Si tratta di conoscenze nate nei circoli politici sociali: amministratori, professionisti, finanzieri. Rafforza i legami con l’avv. Giuseppe Pezzotta, figlio dell’ex sindaco di Bergamo e buon amico della moglie Susanna Mazzoleni, anch’essa avvocato, sposata dopo l’annullamento del primo matrimonio. Si scambia regali di Natale con Claudio Dini, presidente della Metropolitana. Frequenta a Milano San Felice la villa, in cui Maurizio Prada, presidente dell’Atm, l’azienda di trasporti milanese, gli fa conoscere l’ex consigliere dell’Eni Valerio Bitetto. Dall’industriale Gorrini della Maa assicurazioni ottiene un impiego per il figlio Cristiano, diciottenne (oggi in Polizia). Per la rivista Gran Milan) che fa riferimento al conte Carlo Radice Fossati, non manca di firmare alcuni articoli di costume e di giustizia. Ritrova Eleuterio Rea, funzionario della Digos, amico degli anni in cui faceva il poliziotto al commissariato Porta Nuova.. Vanno all’ippodromo insieme (Rea è un accanito scommettitore), frequentano lo stesso giro di amicizie che comprende anche il questore Achille Serra (la moglie di Prada, Agnese, né è la segretaria).
Ma l’amico del cuore di Antonio Di Pietro è uno soltanto: Giuseppe Lucibello. Fa l’avvocato, frequenta Di Pietro dai primi tempi del suo arrivo a Milano come magistrato. Proviene dalla “scuola salernitana”. Ha dovuto abbandonare precipitosamente le aule del Cilento per le minacce che gli venivano da ambienti della Camorra.
Di sicuro alcuni magistrati, con i quali Lucibello aveva rapporti professionali e d’amicizia, sono risultati coinvolti in brutte storie, episodi contrari ai doveri d’ufficio. E’ Lucibello a introdurre Di Pietro nei salotti bene e, quando scoppierà lo scandalo di tangentopoli, sempre Lucibello farà la parte del leone come avvocato difensore. Non solo saranno suoi fortunati clienti Prada, Radaelli e Radice Fossati,ma anche Pacini Battaglia, gran tesoriere dei soldi neri in Svizzera.
Di Pietro è un uomo dal cuore d’oro. Uno che sa anche restituire i favori e rispettare gli amici. Eleuterio Rea, per esempio,. Stavano per trasferirlo a Lamezia quando a Milano si presentò l’opportunità di nominarlo comandante dei Vigili Urbani. Di Pietro chiese al procuratore capo Saverio Borelli l’autorizzazione a far parte della commissione che avrebbe dovuto tracciare l’identikit del futuro capo dei “ghisa” milanesi e poi, esaminare i candidati. La commissione si insediò, Di Pietro fece il suo lavoro, poi alla vigilia degli esami, ci si accorse che un magistrato non poteva stare in quel posto. Di Pietro fu cortesemente invitato a lasciare l’incarico.
Ma ormai l’identikit del giusto candidato era stato delineato e Rea rimase a Milano, con i gradi del comandante. Quando si indebitò, per la sua mania del gioco, Di Pietro lo salvò. Come? Secondo i pubblici ministeri di Brescia facendoli avere un prestito da un altro amico: Gorrini. Vero o falso? Il gip non ci crede. Il dossier, contenente tutte le malefatte di Tonino, che Gorrini consegna nel novembre del 1994 alla magistratura di Breccia è stato oggetto di un’inchiesta giudiziaria conclusasi con la solita archiviazione decisa dal gip. Ciononostante dei contenuti di quel documento si occupa ampiamente la sentenza del tribunale di Brescia che manda assolti Previti e compagni dall’accusa di minacce rivolte a Di Pietro e sconfessa ripetutamente il famoso pm. (CONTINUA)

giovedì 25 settembre 2008

DA "Corruzione ad Alta Velocità" (3° parte)

Ma come per le auto , anche per le case Di Pietro era insaziabile. Sempre nel1991 (prima che cominciasse l’inchiesta “mani pulite”) l’allora magistrato scopre di avere urgente bisogno di un altro appartamento a Milano.
Con le opportune entrature, come si addice a uno che conta, raccomandato dal socialista Sergio Radaelli, presidente della Cariplo, la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, Di Pietro si vede assegnare in affitto un appartamento in via Andegari, n.18, nel pieno centro storico della città. La raccomandazione evidenzia che la cosa ( o meglio la casa) interessa al Sindaco Pillitteri. L’appartamento gli viene affittato con procedura discrezionale, in quanto locato in deroga alle norme che stabilivano la destinazione degli immobili della banca ai dipendenti o pensionati dell’istituto: Nonostante le spese per la ristrutturazione siano a carico della stessa Carialo, per l’arredamento ci sarebbero dei soldini da sborsare, soldini che verranno anticipati dal dottorema …rimborsati dall’ing. D’Adamo, al quale verranno restituiti, come è ormai prassi nel 1994 e ovviamente senza interessi di sorta. Anzi per amor di precisione, saranno restituiti solo 15 milioni, invece dei 18 impiegati per l’arredo di casa di Di Pietro. I tre milioni in meno e i mancati interessi bancari non sono forse altre munificenze?
Quello dell’alloggio deve essere stato in un certo periodo della sua vita, certamente tra il 1990 e il 1993, una vera fissazione per Di Pietro. Due case a Milano, una a Curno e poi gli alberghi. Quelli romani in particolare. Tra il marzo del ’90 e il maggio del ’93 il pubblico ministero fa avanti e indietro fra Milano e la capitale. Per 12 volte alloggia presso il residence “My Fair”. Nello stesso arco di tempo risultano 13 biglietti aerei andata/ritorno a lui intestati. Per 12 pernottamenti solo uno è stato pagato dal magistrato, i restanti vengono saldati dalla solita Edilgest Finanziaria spa, solita società del solito D’Adamo. Quanto ai voli nessuno risulta essere stato pagatola Di Pietro: cinque sono nelle note spese della Edilgest. I sette che mancano li ha pagati D’Adamo, in contanti di tasca sua.
Ma Di Pietro, si sa, è un uomo di grande cuore, un uomo generoso. Non pensa solo a se stesso, ma anche ai suoi stessi collaboratori. Rocco Stragaprede ad esempio, ad esempio. Lo abbiamo già incontrato. E’ quello che gli portava la “Dedra” in garage per la manutenzione. Rocco ha biosogno di telefonare e anche lui deve pur avere una casa dove vivere. Ed ecco che anche il caRO Rocco ha in uso un cellulare, ovviamente intestato a una società di D’Adamo. E per la casa dottò che debbo fare? Non c’è problema Rocco. Ti va bene Rho? Non è distante da Milano. Anche l’appartamento di Rho, dove Rocco Styragapede vive , è intestato ad un dipendente di D’Adamo che è in possesso delle ricevute del canone d’affitto per il periodo gennaio-novembre 1994 e della quasi totalità delle bollette per luce e gas del periodo luglio 1993-luglio 1995. Persino una libreria per la casa di Curno risulta essere stata pagata da D’Adamo, con un assegno firmato da Stragapede, coperto da soldi però dati dallo stesso ingegnere.
L’ing. D’Adamo –è bene ricordarlo, si è deciso a rivelare questi retroscena del rapporto con l’allora magistrato soltanto nel 1997, dopo che per diversi anni aveva insistito- anche di fronte ai pubblici ministeri di Brescia che indagavano sulle vicende di altri amici di Di Pietro, come Rea e Gorrini- nel fornire versioni coincidenti con le tesi difensive dell’amico magistrato. Furono proprio le deposizioni rese a quel tempo da D’Adamo ad essere utilizzate per smentire le accuse dei pm di Brescia contro Di Pietro, consentendo all’ex magistrato Di Pietro di essere prosciolto dal gip per cominciare la sua ascesa politica. E non appare quindi casuale che D’Adamo mantenne le dichiarazioni che salvarono Di Pietro fino a quando questi era pubblico ministero fino a pochi mesi dopo. In seguito quando Tonino lasciò la magistratura D’Adamo dichiarò di avere mentito e di volere la verità.
D’Adamo – anche questo è bene precisarlo –per un periodo abbastanza lungo ha svolto il ruolo di intermediario tra l’ex magistrato e Silvio Berlusconi , alla cui politica lo stesso Di Pietro faceva oggettivamente riferimento. Tanto che gli fu offerto un dicastero proprio nel governo Berlusconi.
Ma torniamo ora aPacini Battaglia, altro grande interprete di questa pièce tutta recitata dietro le quinte di “mani pulite”, di cui la gente comune ha conosciuto soltanto la recita messa in scena sul palcoscenico della procura e dei tribunali. Fin dal 1993 “Chicchi” risulta indagato dal dott. Di Pietro nel procedimento denominato enimont. Per capirci di più, il lettore non dimentichi mai che Di Pietro è rimasto in magistratura fino all’aprile 1995.
Che Di pietro avesse la passione delle auto e delle case lo abbiamo visto. Di passione però il grande pubblico ministero ne ha sempre avuta anche un’ altra : i telefonini. Un radiotelefono che lui non pagava (ci pensava D’Adamo) lo aveva sulla Dedra della solita società del solito D’Adamo Un altro, pagato sempre dall’ingegnere, lo aveva il fido Rocco Stragapede . Ma la cellularmania è una brutta bestia. Quando ti aggredisce non c’è più nulla da fare. Sta di fatto, che, tra le tante schede Gsm, acquistate in svizzera e distribuite da Pacini ai suoi numerosi amici, l’utenza Gsmn. 0041/892009854 è stata certamente usata da Di Pietro. Le schede Gsm svizzere avevano all’epoca una particolarità: rendevano praticamente in intercettabili i telefonici che le usavano: Queste schede erano tutte intestate a Henri Lang, autista di Pacini Battaglia. E anche questo è agli atti della magistratura bresciana. Che il fatto non sia stato considerato reato dalla signora Di martino non significa che non sia vero.
Ma attenzione, questo dato di fatto è importantissimo. I giurisperiti direbbero che è idoneo a collegare direttamente e inequivocabilmente l’inquisitore all’inquisito nel bel mezzo dell’inquisizione.
Una cosa è più che sicura: né il magistrato Di pietro, né l’ineffabile avvocato Lucibello hanno mai dato una spiegazione convincente di come e perché sia potuto accadere che mentre Pacini Battaglia era indagato da Di Pietro costui avesse in uso telefonini riconducibili all’indagato predisposti per evitare l’ascolto di orecchie indiscrete.
Una spiegazione potrebbe essere questa: Lucibello era allo stesso tempo il difensore di Pacini e l’amicone di Di Pietro. E quindi prendeva per lui e per l’amico le schede magiche che pacini battaglia gli passava. Ma non sembra una vera spiegazione. Perché si limita a spostare il problema. Che invece è questo: perché Pacini Battaglia, uno dei più grandi maneggioni viventi, pur essendosi già affidati ad altri quotati studi legali, scelga come legale sulla piazza di Milano proprio lui, il per nulla quotato avvocato Geppino Lucibello notoriamente legato però al famoso pm e giustamente orgoglioso di cotanta amicizia? Tanto orgoglioso che vantava sempre e ovunque questo prestigioso legame. Tanto immedesimato nel ruolo di amico, da non avere più voce propria fino a divenire la propaggine acustica,un vero e proprio ventriloquo
I pubblici ministeri di Brescia ritengono che il possesso e l’uso di quella scheda telefonica, che è pagata da Pacini Battaglia, sia la dimostrazione diretta del legame e dei rapporti fra Di Pietro e lo stesso banchiere italo-svizzero e chiuda per così dire il circolo indiziario. Basterebbe quella scheda Gsm – dicono i magistrati della Procura di Brescia – a provare almeno quattro cose:

-fra i due è intervenuto un accordo sulla gestione processuale della posizione dello stesso Pacini Battaglia. Gestione processuale che a Milano è stata totalmente devoluta all’allora sostituto Antonio Di Pietro

-D’Adamo, quando ha avuto problemi, si è rivolto al banchiere su indicazione di Di Pietro, essendo quest’ultimo consapevole che “Chicchi” gli dovesse della riconoscenza.

-Pacini ha aiutato economicamente D’Adamo (la vendita a prezzi stracciatissimi, delle azioni della già ricordata Morave Holding), avendo avuta una percezione molto precisa: i favori dispensati a costui sarebberostati valutati positivamente dal “suo” pm.

-Il termine intermedio di questa triangolazione (Pacini-D’Adamo-Di Pietro) è rappresentato dalla posizione personale e professionale dell’avv. Lucibello. Senza questa posizione intermedia, Pacini Battaglia non avrebbe goduto della particolare posizione processuale e fra il banchiere e D’Adamo non si sarebbe costituito alcun rapporto. A questo punto è bene tentare di riassumere questa “congerie” di fatti e personaggi.
(CONTINUA)

martedì 23 settembre 2008

Da "Corruzione ad Alta Velocità" (2°parte)

Un altro ”presidio giudiziario”?

Di quest’ultimo avviso sono i magistrati della Procura di Brescia che il 12 novembre 1996 ricevono per competenza territoriale da La Spezia il procedimento penale a carico di Antonio Di Pietro, il suo amico del cuore, l’avvocato Giuseppe Lucibello e il costruttore Antonio D’Adamo (amico del pm milanese, poi suo grande accusatore e beneficiato da Pacini Battaglia di munifiche elargizioni di denaro) per reati di concorso in corruzione. Chiedendo il rinvio a giudizio di questi personaggi, i pubblici ministeri bresciani ribadiranno questo concetto: ci sono inchieste su cui Di Pietro non volle indagare per favorire Pacini Battaglia.
Ammettiamo, nello svolgere il nostro ragionamento, che quest’ipotesi formulata dai pubblici ministeri di Brescia – a prescindere dalle valutazioni strettamente giuridiche che riguardano la rilevanza penale di determinate condotte del dott. Antonio Di Pietro – sia storicamente fondata su argomenti concreti. Allora ecco un altro quesito: perché questi dati non sono stati giudicati sufficienti per una verifica dibattimentale? Tanto più che alla base delle accuse dei pm di brescia vi era una circostanziata confessione di D’Adamo, con una serie impressionante di riscontri diretti, tra cui il” prestito” di ben 12 miliardi senza l’ombra di una garanzia.
La risposta a questa inquietante domanda può fornircela soltanto l’esame di un intreccio che ha dell’incredibile, di una trama che si dipana dal momento topico delle dimissioni di Di Pietro dalla magistratura e che, attraverso numerosi flash back, ci porta all’ormai celebre frase pronunciata dal banchiere Pacini Battaglia che per primi ascoltarono, intercettandola, gli uomini del Gico della Guardia di finanza di Firenze e, per secondi, proprio i magistrati di La Spezia Franz e Cardino: “quei due mi hanno sbancato”, dove “quei due” sono gli amici di sempre: Di Pietro e Lucibello, legale, guarda caso, di Pacini Battaglia.
I flash back che cercheremo di seguire ci portano proprio a questa frase, ma anche ad un interrogatorio, tanto clamoroso quanto drammatico. L’interrogatorio cui Di Pietro sottopose, guarda caso proprio nel 1993, l’alleato politico di oggi : Romano Prodi.
Ma andiamo per ordine. A tutt’oggi nessuno, e tantomeno lui, è stato in grado di spiegare perché il tonino nazionaleabbia, nel pieno della sua carriera, e in maniera tanto repentina, abbandonato l’rodine giudiziario. Senza presunzioni da parte di chi scrive, forse la risposta più vicina al vero la si può intravedere nell’indagine abortita dal magistrato milanese proprio sull’Alta velocità.
Personaggi e interpreti di questa sconcertante vicenda sono i tre imputati a Brescia, poi prosciolti nel febbraio 1999 dal gip Anna Di Martino, più il solito Pacini Battaglia.
Per mesi i media italiani – all’indomani della pubblicazione dell’intercettazione ambientale di una conversazione svoltasi l’11 gennaio 1996 tra Pacini e il suo precedente difensore, l’avv. Marcello Petrelli – si sono esercitati sul termine “sbancato” usato dal banchiere, con alte riflessioni linguistiche e persino epistemologiche, avanzando dubbi sul termine: “sbancato” o “sbiancato”, oppure “stangato”. Quasi si avvertisse un senso di vertigine, di timor panico ad ammettere quel che la parola stava inequivocabilmente a significare. Pochi però hanno riflettuto sul contesto argomentativi che faceva da supporto alla famosa parola, perché, il “banchiere di Dio” non si limitava, nelle privatissime conversazioni che nonm avvenivano mai per telefono (Pacini aveva il sospetto di essere intercettato, ma non poteva immaginare di avere i microfoni in casa), a bofonchiare, ma argomentava con sufficiente lucidità e coerenza. Per esempio a tal Enrico Minemi, il 1° gennaio riferisce:

“oggi come oggi noi siamo usciti da “mani pulite”[…] pagando, intrafugnando”.E all’avv. Petrelli comunica che:

“…quello che ti voglio dire… a me se chiappano Lucibello e Di Pietro…hanno i soldi in Austria, io sono l’uomo più contento del mondo…vediamo di capirsi io non ho sposato Di Pietro, né ho sposato Lucibello. A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato…A me se li buttano dentro tutti e due…mi fai l’uomo più felice del mondo”

Come ben si vede, i termini non si esauriscono nel celebre “sbancato”, ma si parla di un’uscita da “mani pulite” avvenuta dietro pagamento e con l’ausilio di imbrogli: infatti il verbo dialettale piano “intrafugnare” ha proprio il significato di imbrogliare, fare imbrogli, tessere e intrecciare reti. Si avverte nel tono della voce di Pacini un astio profondo per il proprio avvocato e per l’allora pubblico ministero Di Pietro, tanto profondo e radicato da augurare ad entrambi la galera. E si noti che tale augurio proviene da una persona che di galera, per colpa di Lucibello e Di Pietro, non ne ha fatta neanche un’ora.
E allora di quali imbrogli si parla, di quali pagamenti ci si lamenta? Qualunque mortale, con metà di quegli elementi, non solo sarebbe stato rinviato a giudizio, ma quasi certamente condannato. Tanto più che chi era accusato rifiutò pervicacemente di sottoporsi a un confronto pubblico.
Il fatto certo è che Pacini Battaglia, pur inquisito dalla Procura di Milano, negli anni 1993-95 non ha subito alcuna custodia cautelare. Così come è sicuro che l’indagine preliminare a suo carico venne svolta in via esclusiva e comunque predominante da Di Pietro (così come hanno affermato, con indiscutibile chiarezza) altri due magistrati del pool Colombo e Greco). Altrettanto fondato è che per evitare di essere incarcerato Pacini si presentò spontaneamente al dott. Di Pietro, assistito dall’avv: Lucibello (frequentatore e commensale abituale del pm). C’è infine un’altra certezza: in concomitanza con questi fatti Pacini provvide a rivendere, al prezzo di quattro miliardi e mezzo, all’imprenditore Antonio D’Adamo (anche lui amicissimo di Di Pietro), le azioni di una società a lui vicina, la Morave Holding. Ripetiamo: al prezzo di quattro miliardi e mezzo di lire, dopo che solo venti giorni prima le aveva acquistate dalla Atlantic Finance al prezzo doppio di nove miliardi. Tranne D’Adamo, a tutt’oggi, nessuno è stato in grado di fornire una spiegazione a un comportamento così illogico e autolesionistico da parte di una persona la cui avvedutezza commerciale non può essere messa in dubbio e che ha fatto di Pierfrancesco “Chicchi” Pacini Battaglia un supercampione dell’ambiente specializzato nell’elaborazione di certe tecniche bancarie. Quelle messe a punto per nascondere le transazioni e le migrazioni delle provviste illecite, cioè i cosiddetti fondi neri, necessari a pagare le tangenti sulle commesse legate agli appalti pubblici.
Per capire il perché il banchiere italo-svizzero sia diventato così generoso nei confronti di uno degli amici più cari di Di Pietro, è necessario capire che ruolo abbia avuto nella vita di Di pietro l’ingegner Antonio A’Adamo, imprenditore milanese. Tutto quello che segue sta nelle carte dei pubblici ministeri di Brescia che hanno chiesto il rinvio agiudizio dell’ex magistrato milanese ma anche nella sentenza del Tribunale di Milano che decise sulle denunzie di Di Pietro.
Cominciamo dalla seconda moglie di Tonino, l’avv. Susanna Mazzoleni. Tra lei e D’Adamo c’è un rapporto di lavoro molto importante. Lei ha infatti dei contatti di consulenza legale con alcune società di D’Adamo. Solo che esistono fatture, regolarmente pagate, di importo decisamente superiore da quanto previsto dai contratti di consulenza: La stessa signora Di Pietro era stata legale della Maa assicurazioni di quel Giancarlo Gorrini, anch’egli sfortunato accusatore dell’ex pm milanese, al quale aveva prestato ben cento milioni senza interessi e senza termini per la restituzione.Sempre Gorrini aveva permesso a Di Pietro l’acquisto di una Mercedes a prezzo stracciato e con comode rate e poi aveva contribuito al salvataggio economico dell’altro amico di Di pietro, Eleuterio Rea, capo dei Vigili Urbani di Milano e pieno di debiti per il suo amore per il gioco.
Le auto sono un po’ la costante della vita di Di Pietro: Non c’è solo la Mercedes di Gorrini, c’è anche la Lancia Dedra intestata ad una società di D’Adamo, la Sii spa, che Tonino usava e alla cui manutenzione provvedeva un collaboratore del magistrato, Rocco Stragaprede, che la portava all’officina Sentieri di Milano, guardandosi bene dal pagare perché i conti della macchina venivano fatturati alla stessa Sii spa. La Dedra era fornita anche di un radiotelefono (intestato alla Edilgest Finanziaria, altra società di D’Adamo). Stranamente Di Pietro restituisce macchina e radiotelefono soltanto quando vennero di pubblico dominio i rapporti tra il pm e l’imprenditore.
Di Pietro rinnovava il suo guardaroba rifornendosi negli stessi negozi che servivano D’Adamo, “Hitman” e “Tincati”. E magari capitava che l’ingegnere pagasse anche abiti della taglia diversa dalla sua, ma corrispondesse a quella del magistrato. Per un ovvio mero disguido.
Tra il 1990 e il 1993 Di Pietro ha avuto in uso anche un appartamento di proprietà del solito D’Adamo, un appartamento in via Agnello 5, a Milano. Stando alle dichiarazioni di D’Adamo, Di Pietro non ha mai pagato né canone, né luce ,né telefono.
E’ poi assolutamente naturale che chi compra casa gli amici facciano a gara nel fare prestiti per qualche centinaia di milioni, naturalmente senza alcun interesse e tantomeno stabilendo delle antipatiche date di restituzione. Seguendo questa nobile consuetudine, che testimoniava tutto il suo affetto per il magistrato, anche D’Adamo, nel 1991, è corso inm aiuto a Di Pietro quando costui decise di acquistare la casa in quel di Curno (Bergamo). Gli versò qualcosina più di cento milioni che gli furono restituiti senza interessi, tre anni dopo, ma in contanti. E dentro una scatola (CONTINUA)

lunedì 22 settembre 2008

Da "Corruzione ad Alta Velocità" (1°parte)

Un libro di cui molti hanno parlato, ma che forse non in molti hanno letto è : Corruzione ad Alta Velocità" di Imposimato Pisauro Provvisionato. Io credo sia un libro fondamentale per capire come funziona la nostra politica e anche quello che c'è dietro le cosiddette grandi opere. Mi ripropongo pertanto di copiarne qui una parte. In questo capitolo si delinea molto bene la persona di Antonio Di Pietro. Ognuno tragga le proprie conclusioni.

DA “CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA’”
DI F. IMPOSIMATO G.PISAURO S.PROVVISIONATO
EDIZIONI KOINè nuove edizioni

CAPITOLO VI. L’UOMO CHE SAPEVA TROPPO


Abbiamo lasciato una domanda in sospeso, un interrogatorio forte. Se a Roma c’era un ben individuato” presidio giudiziario”, costituito da Pacini Battaglia a tutela dei suoi affari e di quelli dei suoi soci, è ipotizzabile che ci sia stata qualche ramificazione a Milano?
Ricapitoliamo: la truffa plurimiliardaria dell’Alta velocità venne scoperta a La Spezia nel 1996. Alcune tracce di quella stessa inchiesta si ritrovano proprio a Milano in un arco di tempo precedente, quello che va dal 1993 al 1995. Non solo la figura di Pacini Battaglia, centrale e nitida nell’inchiesta Enimont, figura che però poi all’improvviso sbiadisce fino a scomparire per riapparire a La Spezia anni dopo. Ma anche molte cose dette dal maneger dell’Agip Santoro a proposito della Tpl. E ancora le sovrapposizioni investigative di Di Pietro con il suo collega romano Castellucci, sempre a proposito dell’Alta velocità.
Eppure furono proprio gli anni compresi tra il 1993 e il 1995 quelli del maggior impegno dei magistrati milanesi impegnati in Tangentopoli. Furono proprio quelli gli anni più sconvolgenti degli equilibri politici, gli anni dell’azzeramento dei grandi e radicati partiti storici, del gran battage della stampa e della televisione che si assumeva il ruolo di mera cassa di risonanza senza il minimo spirito critico, gli anni della celebrazione dei magistrati che ponevano all’ordine del giorno la questione morale. E infine gli anni della creazione della figura del giudice come “eroe” incorrotto e incorruttibile.
Su tutti svettava il dott. Antonio Di Pietro, assunto a simbolo di “mani pulite”, celebrato e osannato nei cortei, ritratto come una rock star sulle magliette dei giovani marciatori. A costui furono offerte tutte le occasioni, i dati materiali le conoscenze giuste per scoperchiare tutte le pentole, anche quella gigantesca dell’Alta velocità.
Eppure Di Pietro non si avvide di nulla o quasi. Mentre eccezionale fu lo zelo su altri fronti d’inchiesta da parte del magistrato di Curno. Ma dove sono finite le confessioni di Enzo Papi che dinanzi ad un pm Di Pietro parlò, nel maggio del 1993, delle mazzette pagate alla Fiat: “Il boccone più ghiotto è quello dell’Alta velocità, un affare inizialmente di 40.000 miliardi, con la Cogefar che assume la guida di due consorzi, che si riservano una larga fetta delle risorse pubbliche. Vincenzo Lodigiani mi fece presente che i partiti chiedevano una tangente del 3%”? E dove sono finite le carte sequestrate a Lodigiani? E le sue dichiarazioni? Piccole, insignificanti distrazioni? Massima concentrazione su un intreccio di corruzione tanto complesso da far scorgere il filo tralasciando la matassa? Oppure Di Pietro non volle scoprire alcunché? Certo impressiona che garante dell’Alta velocità fosse –tra il 1992 e il 1993- quel prof. Romano Prodi, con lui oggi alleato nel movimento “I democratici”Il dubbio si fa più grande quando i pm di Perugia scrivono che i risultati dell’inchiesta di Milano furono tali da “evitare rischi per quegli interessi alla cui salvaguardia Pacini presiede anche in nome e per conto di Necci e dei responsabili della Tpl”. E il Tribunale di Milano, il 1° dicembre del 1997, in sede di riesame, ha confermato che tra i conti di Pacini e i suoi fiduciari e i conti dei dirigenti dell’Eni e della Tpl-Av esistevano evidenti interconnessioni, E che tutti questi conti erano stati svuotati a partire dal primo arresto del Pacini -durato poche ore- nel 1993.
(CONTINUA)