Un altro ”presidio giudiziario”?
Di quest’ultimo avviso sono i magistrati della Procura di Brescia che il 12 novembre 1996 ricevono per competenza territoriale da La Spezia il procedimento penale a carico di Antonio Di Pietro, il suo amico del cuore, l’avvocato Giuseppe Lucibello e il costruttore Antonio D’Adamo (amico del pm milanese, poi suo grande accusatore e beneficiato da Pacini Battaglia di munifiche elargizioni di denaro) per reati di concorso in corruzione. Chiedendo il rinvio a giudizio di questi personaggi, i pubblici ministeri bresciani ribadiranno questo concetto: ci sono inchieste su cui Di Pietro non volle indagare per favorire Pacini Battaglia.
Ammettiamo, nello svolgere il nostro ragionamento, che quest’ipotesi formulata dai pubblici ministeri di Brescia – a prescindere dalle valutazioni strettamente giuridiche che riguardano la rilevanza penale di determinate condotte del dott. Antonio Di Pietro – sia storicamente fondata su argomenti concreti. Allora ecco un altro quesito: perché questi dati non sono stati giudicati sufficienti per una verifica dibattimentale? Tanto più che alla base delle accuse dei pm di brescia vi era una circostanziata confessione di D’Adamo, con una serie impressionante di riscontri diretti, tra cui il” prestito” di ben 12 miliardi senza l’ombra di una garanzia.
La risposta a questa inquietante domanda può fornircela soltanto l’esame di un intreccio che ha dell’incredibile, di una trama che si dipana dal momento topico delle dimissioni di Di Pietro dalla magistratura e che, attraverso numerosi flash back, ci porta all’ormai celebre frase pronunciata dal banchiere Pacini Battaglia che per primi ascoltarono, intercettandola, gli uomini del Gico della Guardia di finanza di Firenze e, per secondi, proprio i magistrati di La Spezia Franz e Cardino: “quei due mi hanno sbancato”, dove “quei due” sono gli amici di sempre: Di Pietro e Lucibello, legale, guarda caso, di Pacini Battaglia.
I flash back che cercheremo di seguire ci portano proprio a questa frase, ma anche ad un interrogatorio, tanto clamoroso quanto drammatico. L’interrogatorio cui Di Pietro sottopose, guarda caso proprio nel 1993, l’alleato politico di oggi : Romano Prodi.
Ma andiamo per ordine. A tutt’oggi nessuno, e tantomeno lui, è stato in grado di spiegare perché il tonino nazionaleabbia, nel pieno della sua carriera, e in maniera tanto repentina, abbandonato l’rodine giudiziario. Senza presunzioni da parte di chi scrive, forse la risposta più vicina al vero la si può intravedere nell’indagine abortita dal magistrato milanese proprio sull’Alta velocità.
Personaggi e interpreti di questa sconcertante vicenda sono i tre imputati a Brescia, poi prosciolti nel febbraio 1999 dal gip Anna Di Martino, più il solito Pacini Battaglia.
Per mesi i media italiani – all’indomani della pubblicazione dell’intercettazione ambientale di una conversazione svoltasi l’11 gennaio 1996 tra Pacini e il suo precedente difensore, l’avv. Marcello Petrelli – si sono esercitati sul termine “sbancato” usato dal banchiere, con alte riflessioni linguistiche e persino epistemologiche, avanzando dubbi sul termine: “sbancato” o “sbiancato”, oppure “stangato”. Quasi si avvertisse un senso di vertigine, di timor panico ad ammettere quel che la parola stava inequivocabilmente a significare. Pochi però hanno riflettuto sul contesto argomentativi che faceva da supporto alla famosa parola, perché, il “banchiere di Dio” non si limitava, nelle privatissime conversazioni che nonm avvenivano mai per telefono (Pacini aveva il sospetto di essere intercettato, ma non poteva immaginare di avere i microfoni in casa), a bofonchiare, ma argomentava con sufficiente lucidità e coerenza. Per esempio a tal Enrico Minemi, il 1° gennaio riferisce:
“oggi come oggi noi siamo usciti da “mani pulite”[…] pagando, intrafugnando”.E all’avv. Petrelli comunica che:
“…quello che ti voglio dire… a me se chiappano Lucibello e Di Pietro…hanno i soldi in Austria, io sono l’uomo più contento del mondo…vediamo di capirsi io non ho sposato Di Pietro, né ho sposato Lucibello. A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato…A me se li buttano dentro tutti e due…mi fai l’uomo più felice del mondo”
Come ben si vede, i termini non si esauriscono nel celebre “sbancato”, ma si parla di un’uscita da “mani pulite” avvenuta dietro pagamento e con l’ausilio di imbrogli: infatti il verbo dialettale piano “intrafugnare” ha proprio il significato di imbrogliare, fare imbrogli, tessere e intrecciare reti. Si avverte nel tono della voce di Pacini un astio profondo per il proprio avvocato e per l’allora pubblico ministero Di Pietro, tanto profondo e radicato da augurare ad entrambi la galera. E si noti che tale augurio proviene da una persona che di galera, per colpa di Lucibello e Di Pietro, non ne ha fatta neanche un’ora.
E allora di quali imbrogli si parla, di quali pagamenti ci si lamenta? Qualunque mortale, con metà di quegli elementi, non solo sarebbe stato rinviato a giudizio, ma quasi certamente condannato. Tanto più che chi era accusato rifiutò pervicacemente di sottoporsi a un confronto pubblico.
Il fatto certo è che Pacini Battaglia, pur inquisito dalla Procura di Milano, negli anni 1993-95 non ha subito alcuna custodia cautelare. Così come è sicuro che l’indagine preliminare a suo carico venne svolta in via esclusiva e comunque predominante da Di Pietro (così come hanno affermato, con indiscutibile chiarezza) altri due magistrati del pool Colombo e Greco). Altrettanto fondato è che per evitare di essere incarcerato Pacini si presentò spontaneamente al dott. Di Pietro, assistito dall’avv: Lucibello (frequentatore e commensale abituale del pm). C’è infine un’altra certezza: in concomitanza con questi fatti Pacini provvide a rivendere, al prezzo di quattro miliardi e mezzo, all’imprenditore Antonio D’Adamo (anche lui amicissimo di Di Pietro), le azioni di una società a lui vicina, la Morave Holding. Ripetiamo: al prezzo di quattro miliardi e mezzo di lire, dopo che solo venti giorni prima le aveva acquistate dalla Atlantic Finance al prezzo doppio di nove miliardi. Tranne D’Adamo, a tutt’oggi, nessuno è stato in grado di fornire una spiegazione a un comportamento così illogico e autolesionistico da parte di una persona la cui avvedutezza commerciale non può essere messa in dubbio e che ha fatto di Pierfrancesco “Chicchi” Pacini Battaglia un supercampione dell’ambiente specializzato nell’elaborazione di certe tecniche bancarie. Quelle messe a punto per nascondere le transazioni e le migrazioni delle provviste illecite, cioè i cosiddetti fondi neri, necessari a pagare le tangenti sulle commesse legate agli appalti pubblici.
Per capire il perché il banchiere italo-svizzero sia diventato così generoso nei confronti di uno degli amici più cari di Di Pietro, è necessario capire che ruolo abbia avuto nella vita di Di pietro l’ingegner Antonio A’Adamo, imprenditore milanese. Tutto quello che segue sta nelle carte dei pubblici ministeri di Brescia che hanno chiesto il rinvio agiudizio dell’ex magistrato milanese ma anche nella sentenza del Tribunale di Milano che decise sulle denunzie di Di Pietro.
Cominciamo dalla seconda moglie di Tonino, l’avv. Susanna Mazzoleni. Tra lei e D’Adamo c’è un rapporto di lavoro molto importante. Lei ha infatti dei contatti di consulenza legale con alcune società di D’Adamo. Solo che esistono fatture, regolarmente pagate, di importo decisamente superiore da quanto previsto dai contratti di consulenza: La stessa signora Di Pietro era stata legale della Maa assicurazioni di quel Giancarlo Gorrini, anch’egli sfortunato accusatore dell’ex pm milanese, al quale aveva prestato ben cento milioni senza interessi e senza termini per la restituzione.Sempre Gorrini aveva permesso a Di Pietro l’acquisto di una Mercedes a prezzo stracciato e con comode rate e poi aveva contribuito al salvataggio economico dell’altro amico di Di pietro, Eleuterio Rea, capo dei Vigili Urbani di Milano e pieno di debiti per il suo amore per il gioco.
Le auto sono un po’ la costante della vita di Di Pietro: Non c’è solo la Mercedes di Gorrini, c’è anche la Lancia Dedra intestata ad una società di D’Adamo, la Sii spa, che Tonino usava e alla cui manutenzione provvedeva un collaboratore del magistrato, Rocco Stragaprede, che la portava all’officina Sentieri di Milano, guardandosi bene dal pagare perché i conti della macchina venivano fatturati alla stessa Sii spa. La Dedra era fornita anche di un radiotelefono (intestato alla Edilgest Finanziaria, altra società di D’Adamo). Stranamente Di Pietro restituisce macchina e radiotelefono soltanto quando vennero di pubblico dominio i rapporti tra il pm e l’imprenditore.
Di Pietro rinnovava il suo guardaroba rifornendosi negli stessi negozi che servivano D’Adamo, “Hitman” e “Tincati”. E magari capitava che l’ingegnere pagasse anche abiti della taglia diversa dalla sua, ma corrispondesse a quella del magistrato. Per un ovvio mero disguido.
Tra il 1990 e il 1993 Di Pietro ha avuto in uso anche un appartamento di proprietà del solito D’Adamo, un appartamento in via Agnello 5, a Milano. Stando alle dichiarazioni di D’Adamo, Di Pietro non ha mai pagato né canone, né luce ,né telefono.
E’ poi assolutamente naturale che chi compra casa gli amici facciano a gara nel fare prestiti per qualche centinaia di milioni, naturalmente senza alcun interesse e tantomeno stabilendo delle antipatiche date di restituzione. Seguendo questa nobile consuetudine, che testimoniava tutto il suo affetto per il magistrato, anche D’Adamo, nel 1991, è corso inm aiuto a Di Pietro quando costui decise di acquistare la casa in quel di Curno (Bergamo). Gli versò qualcosina più di cento milioni che gli furono restituiti senza interessi, tre anni dopo, ma in contanti. E dentro una scatola (CONTINUA)
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