Mostri di cemento nel mondo: la diga delle Tre Gole
Marco Cedolin
Pubblicato su Terranauta
Le grandi dighe rappresentano, forse meglio di qualsiasi altra faraonica infrastruttura, l’ambizione di dominio dell’uomo moderno che ha relegato la natura nel ruolo improprio di “nemico” da soggiogare, sconfiggere, umiliare a proprio piacimento. La costruzione di una grande diga implica sempre lo stravolgimento (tanto più intenso quanto più grande è l’opera) di vastissimi territori, la cui realtà verrà modificata in profondità dal punto di vista ambientale, economico, sociale e climatico, con risultati spesso catastrofici tanto nel breve quanto nel lungo periodo.
La diga delle Tre Gole che sorge nella provincia cinese dello Hubei e sbarra il flusso dello Yangtze (il grande fiume azzurro) è stata inaugurata nel mese di giugno 2006. Soprannominata “la Grande Muraglia” del terzo millennio è alta 185 metri (come la Torre Eiffel) e lunga quasi 2,5 km, una volta a regime nel 2009 le sue 26 megaturbine produrranno 84,7 miliardi di kilowattora ogni anno (l’equivalente di una ventina di centrali nucleari) e forniranno circa il 10% della richiesta energetica del paese.
I lavori per la costruzione della diga sono durati 13 anni e la struttura si rivela talmente immensa da essere una delle pochissime costruzioni dell’uomo visibili dallo spazio. Il costo dell’opera, è raddoppiato rispetto alle previsioni iniziali fino ad arrivare a 21 miliardi di euro e rischia di salire ancora prima che la struttura sia completamente funzionante.
L’invaso che formerà un vero e proprio mare nel centro della Cina, si estenderà per quasi 600 km ed occuperà 1084 kmq di superficie con una profondità dell’acqua prevista di 175 metri.
Oltre allo scopo primario consistente nella produzione di energia, la diga delle Tre Gole nelle intenzioni del governo cinese dovrebbe anche costituire un rimedio alle frequenti piene del fiume e contribuire a migliorare la navigazione dello stesso attraverso un complesso sistema di chiuse ed ascensori che consentirebbe il passaggio di navi fino a 10.000 tonnellate di stazza.
Valutare tutte le ricadute negative dal punto di vista socio/ambientale derivanti da un mostro di cemento armato di queste dimensioni è un’impresa oltremodo ardua tante sono le conseguenze della diga e del suo invaso su un territorio immenso e sulla vita di milioni di persone.
Lo Yangtze, terzo fiume del mondo con i suoi 7378 km di lunghezza, costituisce un bacino che accoglie il 12% dell’intera umanità e garantiva in passato il 70% dell’intero pescato cinese, mentre oggi questa percentuale si è più che dimezzata. A causa delle 46 dighe che ne costellano il corso e degli altissimi valori d’inquinamento (aumentati del 73% negli ultimi 50 anni) derivanti dalle centrali elettriche, dalle fabbriche alimentate a carbone e dalla frenetica navigazione, quello che veniva decantato come un “paradiso terrestre” ha ormai perso la maggior parte delle sue peculiarità. Sono scomparsi 800 laghi, l’85% delle foreste originarie non esiste più, le riserve di pesce sono diminuite del 75% e si sono creati problemi di potabilità dell’acqua in oltre 500 città.
L’organizzazione internazionale “Friends of the Earth” definisce quella delle Tre Gole come la diga più distruttiva della storia e analizzando le conseguenze presenti e future connesse all’opera non si fatica a comprendere il perché di un giudizio così negativo.
A causa della diga 1.200.000 persone sono state sfollate con la forza dalle loro case che ora giacciono sul fondo dell’invaso che ha sommerso 30.000 ettari di terreni coltivabili, ed altri 800.000 abitanti saranno costretti ad evacuare nel corso del prossimo anno quando il livello dell’acqua aumenterà ancora. Per consentire il progetto 1.500 villaggi e 75 città sono stati abbattuti e sommersi dall’acqua, insieme a 1300 importanti siti archeologici contenenti reperti vecchi di 6000 anni.
Un vero e proprio esodo sta sconvolgendo il cuore del continente cinese, gli sfollati in gran parte contadini hanno perso la propria casa ed il proprio lavoro, senza ricevere in cambio alcuna indennità e si ritrovano oggi preda della miseria. Ogni protesta è stata nel corso degli anni soffocata con la repressione, molti contestatori fra i quali la giornalista Dai Qing sono stati imprigionati con l’accusa di propaganda sovversiva.
Oltre alle questioni di ordine sociale che riguardano il futuro di milioni di sfollati, la diga delle Tre Gole ingenera tutta una serie di problematiche dal punto di vista ambientale e della sicurezza che seppure sottaciute dal governo cinese meritano di essere messe in evidenza.
A causa della frammentazione di un intero ecosistema il rischio di estinzione per moltissime specie sia animali che vegetali, alcune delle quali uniche, è altissimo in una zona della terra ricca come poche altre di biodiversità.
Un problema di grossa rilevanza sarà costituito dall’accumulo di una parte dei 530 milioni di tonnellate di sabbia e rocce che annualmente scorrono attraverso le Tre gole. Tale accumulo sotto forma di fanghi rischierà di mettere a repentaglio sia la stabilità della diga che il corretto funzionamento delle turbine. Fino ad oggi non è stata prevista al riguardo alcuna contromisura volta a tenere sotto controllo i rischi.
Nel fiume Yangtze vengono inoltre riversati senza che esista alcun tipo di controllo gli scarichi di decine di città, migliaia di fabbriche e milioni di abitazioni, composti da migliaia di tonnellate di sostanze tossiche ed inquinanti. La diga rallentando il corso del fiume favorirà l’accumulo dei rifiuti e delle sostanze altamente nocive, trasformando in breve tempo l’intero bacino in una vera e propria fogna a cielo aperto emanante miasmi venefici con il rischio che si determinino devastanti epidemie.
Le enormi proporzioni del bacino che si verrà a creare, equivalenti in tutto e per tutto a quelle di un vero e proprio “mare” determineranno secondo gli esperti uno stravolgimento climatico dell’intera area. Le temperature stagionali saranno più basse d’estate e più alte d’inverno di almeno 2 gradi e cambierà il regime delle precipitazioni con conseguenze rilevanti e imprevedibili sull’equilibrio dell’intero ecosistema.
Estremamente allarmanti sono i problemi di origine geologica connessi al fatto che la diga è collocata sopra ad una faglia ed è pertanto soggetta ad un grave rischio sismico. Rischio che potrebbe essere amplificato dall’enorme peso dell’invaso che secondo gli esperti sismologici sarebbe in grado di alterare gli equilibri geostatici dell’intera regione, aumentando il pericolo di devastanti terremoti. Un primo segnale in questo senso potrebbe essere rappresentato dalla scossa di grado Richter 5,7 che ha colpito la regione dello Jiangxi il 20 novembre del 2005 causando 15 vittime e la distruzione di migliaia di case.
La conformazione geofisica del bacino presenta inoltre molte similitudini con la tristemente nota area del Vajont, essendo composta da roccia calcarea disseminata di cavità contenenti argilla. Secondo le parole del botanico cinese Hou Xueyu l’area di riempimento sarebbe soggetta a frequenti frane e valanghe di fango e oltre 214 punti si rivelerebbero potenzialmente pericolosi. Il geologo Fan Xiao, dopo aver effettuato un sopralluogo ha evidenziato la pericolosità della frana di Shuping, costituita da 23 milioni di metri cubi di terra e rocce che rischiano di abbattersi a monte della diga sulla sponda sud.
La diga delle Tre Gole (che già al momento dell’inaugurazione presentava allarmanti fessure nella struttura) ed il suo immenso bacino hanno dimensioni talmente imponenti da far si che l’eventualità di un suo crollo per effetto di un cataclisma naturale, di un attacco militare o terroristico o di un cedimento strutturale, causerebbe un’ecatombe di proporzioni gigantesche, superiori a quelle di un bombardamento nucleare, in grado di portare alla morte oltre 100 milioni di persone secondo un’analisi dell’intelligence americana.Tale pericolo appare tanto più drammatico e tangibile se pensiamo che in Cina dal 1949 ad oggi sono già crollate ben 3000 dighe (62 nel corso del solo 1975) causando la morte di 250.000 persone.
Marco Cedolin
www.ilcorrosivo.blogspot.com
domenica 24 maggio 2009
lunedì 18 maggio 2009
UNA STORIA (STRA)ORDINARIA
http://www.stefanomontanari.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1771&Itemid=62#JOSC_TOP
di Antonietta Gatti
Ieri sono andata a Bologna per una trasmissione radiofonica ed ho usato l’automobile.
L’ho parcheggiata, l’ho chiusa e sono andata al mio appuntamento. Una volta tornata, quando ho fatto per ripartire, mi sono accorta che la batteria era andata a zero e il motore non voleva accendersi. Prima ancora di pensare al da farsi, Matteo mi ha detto che mi avrebbe aiutato a ripartire.
Pensavo che avesse dei cavi nella sua macchina per ricaricare la mia batteria.
Nossignore: ha dato una bella spinta e l’auto è ripartita.
La storia di per sé sarebbe insignificante se non fosse per un particolare : Matteo ha la sclerosi multipla e fino al 2006 non camminava, non vedeva più da un occhio, non parlava e aveva perduto la capacità di muovere le mani. Gli restava l’uso di un pollice che ruotava in basso o in alto per comunicare con il mondo. Chi vuole può leggere la sua storia andando su www.matteodallosso.org.Come è possibile che una persona con sintomi espliciti,
di una malattia così terribile, con una diagnosi uscita da due importanti ospedali su esami inappuntabili, condotti anche su base genetica, sia ritornata dall’inferno?
Lui, ingegnere elettronico 31enne (lunedì 18 è il suo compleanno), si racconta alla radio (Punto Radio del 15 maggio alle 16:30) in maniera semplice, senza rancori, vittimismi, recriminazioni. Racconta che la salvezza è arrivata dal voler sapere sempre di più della sua malattia al di là di ciò che dicevano i medici, cercando di persona risposte e soluzioni. La soluzione l’ha trovata in Germania e poi a Bologna, vicino a casa sua.
Ha seguito una terapia chelante che l’ha riportato a correre, a nuotare, a scalare e a fare paracadutismo.
Ciò che colpisce è l’energia contagiosa che Matteo emana. Un giovane che ha vissuto per anni in un orrido e ce l’ha fatta ad uscirne non può che diffondere gioia, felicità, voglia di vivere.
Ma in Matteo c’è qualcosa di più: c’è la voglia di aiutare gli altri, chi è caduto vittima di quella malattia, ad uscirne. Il suo blog ha proprio questo scopo: far conoscere la sua terribile esperienza e la strada che l’ha portato a riemergerne. Messaggio semplice, diretto, efficace.
La sua storia mi porta a fare due riflessioni. Una è che la Natura non è poi così matrigna come credevo. Lavorando con bambini malati o malformati, con feti abortiti, con soldati che ritornano distrutti da missioni di pace, mi ero fatta l’idea che non ci fossero soluzioni. Invece ho verificato che malattie “incurabili” come la sclerosi multipla possono regredire, che non si tratta di un fenomeno irreversibile. Questo mi dà una spinta ad essere ottimista, a credere che qualcosa si può fare.
La seconda riflessione riguarda un aspetto del decorso della malattia di Matteo. In un certo ospedale i medici gli volevano praticare una terapia basata su di un chemioterapico molto potente (resta tutto da spiegare perché curare con un antitumorale una malattia che tumore non è) e lui, con il suo pollice verso, negava l’assenso. I medici non accettavano che il paziente decidesse per sé e arrivarono a convincere i genitori che Matteo non era più in grado d’intendere e di volere e che, quindi, dovevano essere loro a decidere per lui. A decidere come avevano deciso loro, naturalmente.
Di questi tempi in cui si è dovuto legiferare su che cosa fosse più giusto per una persona in coma da 27 anni, se un paziente chiaramente padrone di tutte le sue facoltà mentali non accetta la somministrazione di un farmaco tossico al di là di ogni possibile discussione, si pretende che questo gli venga comunque somministrato perché qualcuno dichiara che quel paziente “non è più in grado di intendere e di volere”.
Ciò che si è tentato di fare a Matteo è un sopruso bello e buono. Un medico che, qualunque sia la ragione, non capisce una malattia non dovrebbe usare farmaci studiati per altre patologie. Matteo ha combattuto i sintomi che quei medici non sono stati capaci di capire e di curare e sta vincendo. La Medicina, oggi come sempre, ha dei limiti e questi dovrebbero essere accettati e resi pubblici con onesta umiltà. Invece, quasi sempre quei limiti vengono accuratamente nascosti dietro una presunzione ed un’arroganza che rasentano la follia.
La tenacia, la volontà di Matteo hanno vinto su chi, incapace d’intendere ma non di volere, lo etichettava, invece, come “incapace d’intendere e di volere.”
Spero che costoro si rendano conto dello schiaffo morale che Matteo, con i fatti, ha inferto a tutta quella fetta spocchiosa della categoria cui appartengono e ne traggano motivo di meditazione. E spero che l’altra fetta, quella dei medici veri, quelli che sono coscienti del perché quella professione così nobile esiste, si liberino finalmente del timore reverenziale nei confronti dei loro spesso più potenti colleghi.
Leggete la storia di Matteo, una storia che Antonio Amorosi, giornalista di Punto Radio pubblicherà sul suo blog. È un’iniezione di energia pura di cui tutti noi abbiamo bisogno.
Antonietta Gatti
Questa è una storia per nulla originale. Fatti del genere sono all’ordine del giorno, eppure pochi ne vengono a conoscenza.
Ricordo quando, all’inizio degli Anni Novanta, scoprimmo che nel sangue circolavano particelle di sostanze che non sarebbero dovute essere là. Una scoperta d’importanza fondamentale per capire tantissimi fenomeni e altrettante patologie. Eppure, non si trovò uno straccio di rivista scientifica disposta a pubblicarla. Se il mondo della scienza si fosse mosso allora, oggi saremmo più o meno dieci anni avanti. Ma ciò che esce dai binari imposti da chi governa quel mondo non deve esistere.
Come la sclerosi multipla, la SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, alla ribalta perché ha colpito diversi calciatori, è una delle tante malattie di cui non si conosce l’origine. O, chissà, di cui è bene non si conosca l’origine o la natura. Un altro esempio? Il cancro.
Così si fanno dei bei centri di ricerca, ci si mettono a capo i personaggi “giusti”, perché no? un po’ di amici e amici degli amici, si stanzia denaro, altro se ne raccoglie con le eroiche “maratone” della solidarietà, e poi… e poi non si arriva a nulla. Non si deve arrivare a nulla, altrimenti la pacchia finisce.
Qualcuno m’insulterà indignato per quello che dico? Allora quel qualcuno mi faccia vedere, superando le chiacchiere di cui non abbiamo bisogno, quali progressi reali si sono fatti negli ultimi vent’anni nella cura del cancro. Mi quantifichi il rapporto tra costo e beneficio. Mi giustifichi, voce per voce, entrate ed uscite. Altrettanto per la sclerosi laterale amiotrofica.
Poco tempo fa, partecipando ad una trasmissione radiofonica, m’incrociai con un giornalista sportivo notissimo che ha importanti entrature con la fondazione che si occupa proprio di SLA. Noi abbiamo qualcosa da dire sull’argomento. Dall’altra parte, zero: tempo e soldi spesi senza il benché minimo risultato. Bene: ad oggi, nonostante l’impegno preso dal giornalista, nessuno ha provveduto a mettersi in contatto con noi. Nemmeno per chiedere che cosa diavolo abbiamo da dire. Scusate se mi fermo qui e non faccio alcun commento. (Stefano Montanari)
di Antonietta Gatti
Ieri sono andata a Bologna per una trasmissione radiofonica ed ho usato l’automobile.
L’ho parcheggiata, l’ho chiusa e sono andata al mio appuntamento. Una volta tornata, quando ho fatto per ripartire, mi sono accorta che la batteria era andata a zero e il motore non voleva accendersi. Prima ancora di pensare al da farsi, Matteo mi ha detto che mi avrebbe aiutato a ripartire.
Pensavo che avesse dei cavi nella sua macchina per ricaricare la mia batteria.
Nossignore: ha dato una bella spinta e l’auto è ripartita.
La storia di per sé sarebbe insignificante se non fosse per un particolare : Matteo ha la sclerosi multipla e fino al 2006 non camminava, non vedeva più da un occhio, non parlava e aveva perduto la capacità di muovere le mani. Gli restava l’uso di un pollice che ruotava in basso o in alto per comunicare con il mondo. Chi vuole può leggere la sua storia andando su www.matteodallosso.org.Come è possibile che una persona con sintomi espliciti,
di una malattia così terribile, con una diagnosi uscita da due importanti ospedali su esami inappuntabili, condotti anche su base genetica, sia ritornata dall’inferno?
Lui, ingegnere elettronico 31enne (lunedì 18 è il suo compleanno), si racconta alla radio (Punto Radio del 15 maggio alle 16:30) in maniera semplice, senza rancori, vittimismi, recriminazioni. Racconta che la salvezza è arrivata dal voler sapere sempre di più della sua malattia al di là di ciò che dicevano i medici, cercando di persona risposte e soluzioni. La soluzione l’ha trovata in Germania e poi a Bologna, vicino a casa sua.
Ha seguito una terapia chelante che l’ha riportato a correre, a nuotare, a scalare e a fare paracadutismo.
Ciò che colpisce è l’energia contagiosa che Matteo emana. Un giovane che ha vissuto per anni in un orrido e ce l’ha fatta ad uscirne non può che diffondere gioia, felicità, voglia di vivere.
Ma in Matteo c’è qualcosa di più: c’è la voglia di aiutare gli altri, chi è caduto vittima di quella malattia, ad uscirne. Il suo blog ha proprio questo scopo: far conoscere la sua terribile esperienza e la strada che l’ha portato a riemergerne. Messaggio semplice, diretto, efficace.
La sua storia mi porta a fare due riflessioni. Una è che la Natura non è poi così matrigna come credevo. Lavorando con bambini malati o malformati, con feti abortiti, con soldati che ritornano distrutti da missioni di pace, mi ero fatta l’idea che non ci fossero soluzioni. Invece ho verificato che malattie “incurabili” come la sclerosi multipla possono regredire, che non si tratta di un fenomeno irreversibile. Questo mi dà una spinta ad essere ottimista, a credere che qualcosa si può fare.
La seconda riflessione riguarda un aspetto del decorso della malattia di Matteo. In un certo ospedale i medici gli volevano praticare una terapia basata su di un chemioterapico molto potente (resta tutto da spiegare perché curare con un antitumorale una malattia che tumore non è) e lui, con il suo pollice verso, negava l’assenso. I medici non accettavano che il paziente decidesse per sé e arrivarono a convincere i genitori che Matteo non era più in grado d’intendere e di volere e che, quindi, dovevano essere loro a decidere per lui. A decidere come avevano deciso loro, naturalmente.
Di questi tempi in cui si è dovuto legiferare su che cosa fosse più giusto per una persona in coma da 27 anni, se un paziente chiaramente padrone di tutte le sue facoltà mentali non accetta la somministrazione di un farmaco tossico al di là di ogni possibile discussione, si pretende che questo gli venga comunque somministrato perché qualcuno dichiara che quel paziente “non è più in grado di intendere e di volere”.
Ciò che si è tentato di fare a Matteo è un sopruso bello e buono. Un medico che, qualunque sia la ragione, non capisce una malattia non dovrebbe usare farmaci studiati per altre patologie. Matteo ha combattuto i sintomi che quei medici non sono stati capaci di capire e di curare e sta vincendo. La Medicina, oggi come sempre, ha dei limiti e questi dovrebbero essere accettati e resi pubblici con onesta umiltà. Invece, quasi sempre quei limiti vengono accuratamente nascosti dietro una presunzione ed un’arroganza che rasentano la follia.
La tenacia, la volontà di Matteo hanno vinto su chi, incapace d’intendere ma non di volere, lo etichettava, invece, come “incapace d’intendere e di volere.”
Spero che costoro si rendano conto dello schiaffo morale che Matteo, con i fatti, ha inferto a tutta quella fetta spocchiosa della categoria cui appartengono e ne traggano motivo di meditazione. E spero che l’altra fetta, quella dei medici veri, quelli che sono coscienti del perché quella professione così nobile esiste, si liberino finalmente del timore reverenziale nei confronti dei loro spesso più potenti colleghi.
Leggete la storia di Matteo, una storia che Antonio Amorosi, giornalista di Punto Radio pubblicherà sul suo blog. È un’iniezione di energia pura di cui tutti noi abbiamo bisogno.
Antonietta Gatti
Questa è una storia per nulla originale. Fatti del genere sono all’ordine del giorno, eppure pochi ne vengono a conoscenza.
Ricordo quando, all’inizio degli Anni Novanta, scoprimmo che nel sangue circolavano particelle di sostanze che non sarebbero dovute essere là. Una scoperta d’importanza fondamentale per capire tantissimi fenomeni e altrettante patologie. Eppure, non si trovò uno straccio di rivista scientifica disposta a pubblicarla. Se il mondo della scienza si fosse mosso allora, oggi saremmo più o meno dieci anni avanti. Ma ciò che esce dai binari imposti da chi governa quel mondo non deve esistere.
Come la sclerosi multipla, la SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, alla ribalta perché ha colpito diversi calciatori, è una delle tante malattie di cui non si conosce l’origine. O, chissà, di cui è bene non si conosca l’origine o la natura. Un altro esempio? Il cancro.
Così si fanno dei bei centri di ricerca, ci si mettono a capo i personaggi “giusti”, perché no? un po’ di amici e amici degli amici, si stanzia denaro, altro se ne raccoglie con le eroiche “maratone” della solidarietà, e poi… e poi non si arriva a nulla. Non si deve arrivare a nulla, altrimenti la pacchia finisce.
Qualcuno m’insulterà indignato per quello che dico? Allora quel qualcuno mi faccia vedere, superando le chiacchiere di cui non abbiamo bisogno, quali progressi reali si sono fatti negli ultimi vent’anni nella cura del cancro. Mi quantifichi il rapporto tra costo e beneficio. Mi giustifichi, voce per voce, entrate ed uscite. Altrettanto per la sclerosi laterale amiotrofica.
Poco tempo fa, partecipando ad una trasmissione radiofonica, m’incrociai con un giornalista sportivo notissimo che ha importanti entrature con la fondazione che si occupa proprio di SLA. Noi abbiamo qualcosa da dire sull’argomento. Dall’altra parte, zero: tempo e soldi spesi senza il benché minimo risultato. Bene: ad oggi, nonostante l’impegno preso dal giornalista, nessuno ha provveduto a mettersi in contatto con noi. Nemmeno per chiedere che cosa diavolo abbiamo da dire. Scusate se mi fermo qui e non faccio alcun commento. (Stefano Montanari)
sabato 2 maggio 2009
CASO DERIVATI BANCHE SOTTO SEQUESTRO
DA
http://www.corriere.it/cronache/09_aprile_28/ferrarella_f5f1a87e-33bf-11de-8558-00144f02aabc.shtml
Sigilli a sedi, quote e conti dopo il «buco» al Comune di Milano
MILANO — Fossero dotati di humour, adesso in Procura potrebbero parodiare una delle proverbiali intercettazioni captate anni fa in tutt’altre indagini economiche: «Abbiamo una banca!». Perché da ieri, in senso quasi letterale, la Procura di Milano ha davvero una banca (il 25% della spa italiana della tedesca Deutsche Bank), e anche la sede di una banca (quella dell’americana Jp Morgan nel Palazzo Hoepli), e cespiti di una banca (conti per 8 milioni nella tedesca Depfa Bank, altre attività nella svizzera Ubs). Tutti beni che il giudice Giuseppe Vanore ha autorizzato il pm Alfredo Robledo a sequestrare, per la prima volta in Italia, fino a un tetto di 92 milioni di euro per Jp Morgan e Depfa Bank, di 84 per Deutsche Bank, di 75 per Ubs: istituti indagati per truffa aggravata ai danni del Comune di Milano nella rinegoziazione del debito di Palazzo Marino con prodotti finanziari «derivati», cioè contratti per gestire il rischio di tasso d’interesse.
Il sequestro preventivo, che raccoglie il lavoro del Nucleo di polizia tributaria della Gdf, poggia su una novità che, se reggerà al Tribunale del Riesame, potrebbe essere replicata in tutta Italia indipendentemente dall’aleatorio andamento del mercato di questi prodotti finanziari piazzati a iosa dalle banche (per 35 miliardi di euro) a 18 Regioni, 44 Province e 447 Comuni, con passività per lo Stato in 2 miliardi. L’idea di fondo, infatti, è che il primo raggiro delle banche al Comune sia avvenuto quando, nella veste di consulenti, avrebbero violato la legge 448 del 2001 che subordina queste operazioni alla riduzione del valore finanziario delle passività totali a carico dell’ente: al contrario, le banche avrebbero rinegoziato il debito tacendo l’esistenza di un «derivato» stipulato dal Comune nel 2002 con Unicredito, che non poteva essere ignorato perché onerosamente collegato a mutui rinegoziati.
A ruota, le banche avrebbero praticato un secondo raggiro, stavolta nella struttura scelta per ammortare il debito del Comune sia nel 2005 (giunta Albertini) sia nel contratto dell’ottobre 2007 (già sotto la giunta Moratti). La regola è che, quando due parti stipulano un contratto derivato, devono essere nelle medesime condizioni e dunque il valore delle prestazioni deve essere pari a zero; se così non è, chi è in vantaggio deve ricostituire in partenza l’equilibrio dando a chi è in svantaggio un pagamento pari alla differenza. Invece, nel rapporto banche-Comune la struttura del contratto — secondo quanto calcolato dal consulente del pm, Gianluca Fusai — determinava già in partenza uno squilibrio tra i due contraenti, e cioè 52 milioni di euro di perdita finanziaria a carico del Comune, dovuta a condizioni contrattuali che avvantaggiavano già in partenza le banche: esattamente il contrario del vantaggio di 55 milioni di euro che le banche rappresentavano invece al Comune. E qui c’è la base del sequestro: la Procura assume infatti che questa perdita del Comune costituisca di per sé e subito un profitto per le banche talmente concreto e attuale che gli istituti lo iscrivono a bilancio come valore effettivo, lo possono vendere e comprare, lo pongono a base di mutui.
Alle banche è addebitato un terzo raggiro: aver violato i doveri di correttezza imposti loro proprio dalla legge inglese «Fsa» che esse avevano voluto regolasse i contratti con il Comune, e in particolare aver manovrato per spingerlo a rinunciare (senza che se ne avvedesse) a tutta una serie di preziose protezioni contrattuali di cui avrebbe in teoria dovuto e potuto godere nella sua veste di ente pubblico territoriale.
Il Comune è parte lesa, ma le 4 banche e i loro 12 manager già da mesi sotto inchiesta sono indagati in concorso con due ex manager comunali: il direttore generale nell’era Albertini, Giorgio Porta, al quale sono sequestrate (fino a teorici 81 milioni) una casa a Milano e una a Courmayeur, e l’allora componente della Commissione tecnica Mauro Mauri, che vede sotto sigilli (per teorici 52 milioni) la sua quota di una casa in Lomellina.
Luigi Ferrarella
http://www.corriere.it/cronache/09_aprile_28/ferrarella_f5f1a87e-33bf-11de-8558-00144f02aabc.shtml
Sigilli a sedi, quote e conti dopo il «buco» al Comune di Milano
MILANO — Fossero dotati di humour, adesso in Procura potrebbero parodiare una delle proverbiali intercettazioni captate anni fa in tutt’altre indagini economiche: «Abbiamo una banca!». Perché da ieri, in senso quasi letterale, la Procura di Milano ha davvero una banca (il 25% della spa italiana della tedesca Deutsche Bank), e anche la sede di una banca (quella dell’americana Jp Morgan nel Palazzo Hoepli), e cespiti di una banca (conti per 8 milioni nella tedesca Depfa Bank, altre attività nella svizzera Ubs). Tutti beni che il giudice Giuseppe Vanore ha autorizzato il pm Alfredo Robledo a sequestrare, per la prima volta in Italia, fino a un tetto di 92 milioni di euro per Jp Morgan e Depfa Bank, di 84 per Deutsche Bank, di 75 per Ubs: istituti indagati per truffa aggravata ai danni del Comune di Milano nella rinegoziazione del debito di Palazzo Marino con prodotti finanziari «derivati», cioè contratti per gestire il rischio di tasso d’interesse.
Il sequestro preventivo, che raccoglie il lavoro del Nucleo di polizia tributaria della Gdf, poggia su una novità che, se reggerà al Tribunale del Riesame, potrebbe essere replicata in tutta Italia indipendentemente dall’aleatorio andamento del mercato di questi prodotti finanziari piazzati a iosa dalle banche (per 35 miliardi di euro) a 18 Regioni, 44 Province e 447 Comuni, con passività per lo Stato in 2 miliardi. L’idea di fondo, infatti, è che il primo raggiro delle banche al Comune sia avvenuto quando, nella veste di consulenti, avrebbero violato la legge 448 del 2001 che subordina queste operazioni alla riduzione del valore finanziario delle passività totali a carico dell’ente: al contrario, le banche avrebbero rinegoziato il debito tacendo l’esistenza di un «derivato» stipulato dal Comune nel 2002 con Unicredito, che non poteva essere ignorato perché onerosamente collegato a mutui rinegoziati.
A ruota, le banche avrebbero praticato un secondo raggiro, stavolta nella struttura scelta per ammortare il debito del Comune sia nel 2005 (giunta Albertini) sia nel contratto dell’ottobre 2007 (già sotto la giunta Moratti). La regola è che, quando due parti stipulano un contratto derivato, devono essere nelle medesime condizioni e dunque il valore delle prestazioni deve essere pari a zero; se così non è, chi è in vantaggio deve ricostituire in partenza l’equilibrio dando a chi è in svantaggio un pagamento pari alla differenza. Invece, nel rapporto banche-Comune la struttura del contratto — secondo quanto calcolato dal consulente del pm, Gianluca Fusai — determinava già in partenza uno squilibrio tra i due contraenti, e cioè 52 milioni di euro di perdita finanziaria a carico del Comune, dovuta a condizioni contrattuali che avvantaggiavano già in partenza le banche: esattamente il contrario del vantaggio di 55 milioni di euro che le banche rappresentavano invece al Comune. E qui c’è la base del sequestro: la Procura assume infatti che questa perdita del Comune costituisca di per sé e subito un profitto per le banche talmente concreto e attuale che gli istituti lo iscrivono a bilancio come valore effettivo, lo possono vendere e comprare, lo pongono a base di mutui.
Alle banche è addebitato un terzo raggiro: aver violato i doveri di correttezza imposti loro proprio dalla legge inglese «Fsa» che esse avevano voluto regolasse i contratti con il Comune, e in particolare aver manovrato per spingerlo a rinunciare (senza che se ne avvedesse) a tutta una serie di preziose protezioni contrattuali di cui avrebbe in teoria dovuto e potuto godere nella sua veste di ente pubblico territoriale.
Il Comune è parte lesa, ma le 4 banche e i loro 12 manager già da mesi sotto inchiesta sono indagati in concorso con due ex manager comunali: il direttore generale nell’era Albertini, Giorgio Porta, al quale sono sequestrate (fino a teorici 81 milioni) una casa a Milano e una a Courmayeur, e l’allora componente della Commissione tecnica Mauro Mauri, che vede sotto sigilli (per teorici 52 milioni) la sua quota di una casa in Lomellina.
Luigi Ferrarella
La Francia si prepara a un incidente tipo chernobyl sul suo territorio
LE MONDE -20.02.08
Près de trente ans après l’accident nucléaire de Three Mile Island (Etats-Unis, 1979), plus de vingt après l’explosion du réacteur nº4 de Tchernobyl (Ukraine, 1986), la France affronte un tabou. Elle esquisse une "doctrine" afin de se préparer à gérer les conséquences d’une catastrophe nucléaire sur son sol. Dans les prochains jours, le premier ministre sera destinataire d’une lettre du Comité directeur pour la gestion de la phase post-accidentelle d’une situation d’urgence radiologique (Codirpa) présentant des éléments de réflexion susceptibles de fonder cette doctrine.
Ce courrier est le fruit de travaux conduits par l’Autorité de sûreté nucléaire (ASN) en lien avec des services et agences de l’Etat, les opérateurs nucléaires et certains acteurs associatifs, à la suite d’une directive interministérielle d’avril 2005. Il témoigne d’un changement radical dans la façon dont les autorités envisagent l’aléa nucléaire. Pendant des décennies, elles se sont montrées obsédées par la sûreté, insistant sur les mécanismes de défense et des statistiques rassurantes, l’accident n’ayant qu’une chance sur un million d’advenir, assurait-on fréquemment. Elles se placent désormais dans la perspective où il surviendrait bel et bien, avec des conséquences environnementales et sanitaires de moyen et long terme.
"Jusqu’à présent, les textes géraient la phase d’urgence d’un accident, jusqu’à la fin des rejets radioactifs, ce qui donne lieu à une dizaine d’exercices par an, témoigne Jean-Luc Lachaume, directeur général adjoint de l’ASN. Le post-accidentel, c’est explorer ce qui se passe ensuite : comment revenir à une situation vivable, si tant est qu’elle le soit, dans les zones touchées."
Pour se projeter dans cette situation, le Codirpa a imaginé deux scénarios – rupture de tube de générateur de vapeur, fusion partielle du cœur du réacteur – comprenant des rejets respectivement d’une heure et d’une journée. Faut-il ou non autoriser le retour des populations dans les territoires contaminés, et si oui à quelle échéance ? Comment organiser leur suivi sanitaire, gérer les déchets, dimensionner les indemnisations ? Une masse d’interrogations est née de ces exercices spéculatifs, conduits dans des groupes de travail spécialisés.
En décembre 2007, un séminaire a permis de synthétiser ces contributions, et de mesurer le chemin qui reste à parcourir. Par exemple, "la méthodologie reste à définir sur l’évaluation de la dose reçue par la population, note M. Lachaume. Il faut introduire un débat scientifique, à froid, sur ce point controversé." Plus concrètement : décontaminer les maisons au jet, pour prévenir l’incrustation des radionucléides, ne va-t-il pas induire des pollutions dans les réseaux d’eau ? Dans les zones agricoles, faudrait-il moissonner pour concentrer la radioactivité et s’en débarrasser, ou chercher sa dilution ?
En 2008, le Codirpa va commencer à donner des instructions aux préfets, organiser de nouveaux exercices de crise pour tester l’ébauche de "doctrine", engager des discussions avec les milieux associatif, éducatif, médical et médiatique. N’est-il pas inquiétant d’être encore au milieu du gué ? "On sait bien gérer la première phase accidentelle, assure Jean-Luc Lachaume. On serait capable de bien réagir en cas de crise plus longue." "On peut modéliser, supputer ; de toute façon, rien ne se passera comme prévu", estime Monique Sené, du Groupement des scientifiques pour l’information sur l’énergie nucléaire, qui a pris part aux travaux du Codirpa. La physicienne salue l’effort de l’Etat pour combler ses lacunes, mais estime qu’une des priorités consiste à associer la population.
Fin connaisseur de la situation en Ukraine et en Biélorussie, touchées au premier chef par le nuage radiologique de Tchernobyl, Jean-Claude Autret, de l’Association pour le contrôle de la radioactivité dans l’Ouest, a lui aussi participé au Codirpa. "On travaille sur des accidents très minorés par rapport à Tchernobyl, rassurants pour les autorités", regrette-t-il, notant que le champ de recherche est "énorme".
Il se félicite cependant du changement de mentalité au sein de l’ASN, tant "il est dur d’appréhender le sacrifice d’un territoire pour plusieurs siècles, voire des millénaires".
Hervé Morin
Près de trente ans après l’accident nucléaire de Three Mile Island (Etats-Unis, 1979), plus de vingt après l’explosion du réacteur nº4 de Tchernobyl (Ukraine, 1986), la France affronte un tabou. Elle esquisse une "doctrine" afin de se préparer à gérer les conséquences d’une catastrophe nucléaire sur son sol. Dans les prochains jours, le premier ministre sera destinataire d’une lettre du Comité directeur pour la gestion de la phase post-accidentelle d’une situation d’urgence radiologique (Codirpa) présentant des éléments de réflexion susceptibles de fonder cette doctrine.
Ce courrier est le fruit de travaux conduits par l’Autorité de sûreté nucléaire (ASN) en lien avec des services et agences de l’Etat, les opérateurs nucléaires et certains acteurs associatifs, à la suite d’une directive interministérielle d’avril 2005. Il témoigne d’un changement radical dans la façon dont les autorités envisagent l’aléa nucléaire. Pendant des décennies, elles se sont montrées obsédées par la sûreté, insistant sur les mécanismes de défense et des statistiques rassurantes, l’accident n’ayant qu’une chance sur un million d’advenir, assurait-on fréquemment. Elles se placent désormais dans la perspective où il surviendrait bel et bien, avec des conséquences environnementales et sanitaires de moyen et long terme.
"Jusqu’à présent, les textes géraient la phase d’urgence d’un accident, jusqu’à la fin des rejets radioactifs, ce qui donne lieu à une dizaine d’exercices par an, témoigne Jean-Luc Lachaume, directeur général adjoint de l’ASN. Le post-accidentel, c’est explorer ce qui se passe ensuite : comment revenir à une situation vivable, si tant est qu’elle le soit, dans les zones touchées."
Pour se projeter dans cette situation, le Codirpa a imaginé deux scénarios – rupture de tube de générateur de vapeur, fusion partielle du cœur du réacteur – comprenant des rejets respectivement d’une heure et d’une journée. Faut-il ou non autoriser le retour des populations dans les territoires contaminés, et si oui à quelle échéance ? Comment organiser leur suivi sanitaire, gérer les déchets, dimensionner les indemnisations ? Une masse d’interrogations est née de ces exercices spéculatifs, conduits dans des groupes de travail spécialisés.
En décembre 2007, un séminaire a permis de synthétiser ces contributions, et de mesurer le chemin qui reste à parcourir. Par exemple, "la méthodologie reste à définir sur l’évaluation de la dose reçue par la population, note M. Lachaume. Il faut introduire un débat scientifique, à froid, sur ce point controversé." Plus concrètement : décontaminer les maisons au jet, pour prévenir l’incrustation des radionucléides, ne va-t-il pas induire des pollutions dans les réseaux d’eau ? Dans les zones agricoles, faudrait-il moissonner pour concentrer la radioactivité et s’en débarrasser, ou chercher sa dilution ?
En 2008, le Codirpa va commencer à donner des instructions aux préfets, organiser de nouveaux exercices de crise pour tester l’ébauche de "doctrine", engager des discussions avec les milieux associatif, éducatif, médical et médiatique. N’est-il pas inquiétant d’être encore au milieu du gué ? "On sait bien gérer la première phase accidentelle, assure Jean-Luc Lachaume. On serait capable de bien réagir en cas de crise plus longue." "On peut modéliser, supputer ; de toute façon, rien ne se passera comme prévu", estime Monique Sené, du Groupement des scientifiques pour l’information sur l’énergie nucléaire, qui a pris part aux travaux du Codirpa. La physicienne salue l’effort de l’Etat pour combler ses lacunes, mais estime qu’une des priorités consiste à associer la population.
Fin connaisseur de la situation en Ukraine et en Biélorussie, touchées au premier chef par le nuage radiologique de Tchernobyl, Jean-Claude Autret, de l’Association pour le contrôle de la radioactivité dans l’Ouest, a lui aussi participé au Codirpa. "On travaille sur des accidents très minorés par rapport à Tchernobyl, rassurants pour les autorités", regrette-t-il, notant que le champ de recherche est "énorme".
Il se félicite cependant du changement de mentalité au sein de l’ASN, tant "il est dur d’appréhender le sacrifice d’un territoire pour plusieurs siècles, voire des millénaires".
Hervé Morin
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