giovedì 2 ottobre 2008

Da "CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA' " (5° PARTE)

La sentenza del Tribunale di Brescia
Un episodio significativo –scrive la sentenza- era quello dell’intervento di Di Pietro per il cosiddetto salvataggio dell’amico Rea, già funzionario della questura di Milano e dal 1989/1990 comandante della Polizia Municipale di milano, notorio amico del magistrato. Riferiva gorrini di essere stato convocato, nel 1990, da Di Pietro presso l’abitazione di D’Adamo e che nell’occasione aveva chiesto, a lui come a D’Adamo di salvare Rea dalla posizione di pesante indebitamento in cui versava per debiti di gioco. Entrambi, inizialmente riluttanti al precitato intervento, avendo provveduto in altre occasioni ad erogare alRea alcune decine di milioni, alla fine avevano ceduto di fronte alle insistenze del magistrato il quale aveva prospettato anche, in caso di mancato salvataggio, lo scandalo che ne sarebbe derivato per coloro che avevano voluto la nomina di Rea a comandante della polizia municipale, cioè Pillitteri e Craxi.

Piccola chiosa: di Pietro, quindi, si preoccupava per gli altri, Pillitteri e Craxi in particolare, e non per se stesso, dimenticando che era stata proprio la sua presenza in commissione a favorire la nomina di Rea.
Ma lasciamo parlare ancora la sentenza del Tribunale di Brescia:

“L’esborso era stato, dichiarava Gorrini, di circa 600 milioni, dei quali trecento versati da lui. Il risanamento della situazione finanziaria era stato coordinato personalmente da Di Pietro. La conclusione dell’operazione era stata festeggiata con una cena cui avevano partecipato D’Adamo, Rea, Rocca, Di Pietro, Pillitteri, Prada e Radaelli.”

C’è qualcosa che colpisce nel contenuto di questa sentenza: la diversa e diametralmente opposta valutazione di alcuni episodi della “Di Pietro story” fatta dal tribunale di Brescia, presieduta dal giudice Maddalo, rispetto al gip di Brescia Anna Di Martino. Il tribunale , mostrando di non avere alcun timore referenziale nei confronti dell’ex “eroe di mani pulite”, ritiene scarsamente attendibili le versioni dei fatti prospettate da Di Pietro, concernenti i suoi rapporti con Gorrini, Rea e D’Adamo. E questo fa con ragionamenti che a noi sembrano molto più convincenti di quelli fatti dallo stesso ex magistrato, seguiti invece con benevolenza dalla Di Martino.

Non va neanche dimenticato che il tribunale di Brescia, voleva procedere ad un confronto dibattimentale tra Di Pietro e D’Adamo. Ma l’ex “grande inquisitore” si avvalse della facoltà di non rispondere, privando l’opinione pubblica della possibilità di capire da che parte fosse la verità.
Una domanda si impone a questo punto. E’ normale che un magistrato, un pubblico ministero impegnato in inchieste quanto mai delicate, faccia pressione su due imprenditori sull’orlo del fallimento, imputati di gravi reati contro il patrimonio e la fede pubblica, per ottenere un cospicuo pagamento teso all’estinzione del debito di gioco di un amico? Ed è accettabile che la giustificazione di tale richiesta fosse quella di evitare uno scandalo, non a se stesso, ma al sindaco Pellitteri e a quello che Di Pietro considerava come l’artefice massimo di Tangentopoli, il più corrotto, spregevole, cinico, malvagio e insopportabile dei politici italiani? Quel bettino Craxi che di lì a pochi mesi sarebbe stato accusato di tutte le nefandezze del sistema?
Un ulteriore vicenda narrata dal Gorrini riguardava l’affidamento alla moglie di Di Pietro, l’avvocato Susanna Mazzoleni del Foro di Bergamo, di un certo numero di cause della compagnia assicuratrice Maa. Gorrini aveva deciso in tal senso di rispondere ad una esplicita richiesta avanzatagli dallo stesso Di Pietro in occasione di un pranzo cui avevano partecipato anche la signora Mazzoleni e il padre di qeust’ultima, avvocato fiduciario della Maa per Bergamo. La richiesta era stata giustificata dalla necessità di consentire alla moglie del magistrato l’espletamento della propria attività professionale anche sulla piazza di Milano. Lo scopo era quello di alleviare Di Pietro dai fastidi dovuti al continuo spostamento tra Milano, luogo di lavoro, e Curno, in provincia di Bergamo, dove abitava conn la moglie.
Scrive a questo proposito la sentenza del tribunale di Brescia:

“Evidenziava il Gorrini che per ottenere l’assegnazione delle cause si era dovuto imporre, dal momento che la compagnia non era soddisfatta della professionalità dello studio di Bergamo.[…] Da ultimo il denunciante Gorrini riferiva all’ispettore [del Ministero di Grazia e Giustizia] che per certo periodo il figlio di DI Pietro , Cristiano, aveva lavorato presso la Maa per interessamento di Rocca.
E qui va notato che il tribunale di Brescia lancia la prima accusa a Di Pietro, laddove questi cerca di accreditare la tesi della “normalità” dell’assegnazione delle cause. Innanzitutto ribadisce che la Maa non era soddisfatta delle restazioni dell’avvocato Mazzoleni.Quanto alla asserita” necessità di evitare quotidianamente lo spostamento da Bergamo a Milano e, quindi , la possibilità per la moglie di lavorare a Milano per poter entrambi soggiornare qualche giorno la settimana nel capoluogo lombardo”, i giudici la escludevano, affermando che essa “non ha trovato alcun riscontro, perché comunque la famiglia non si è trasferita da Curno.”. Il tribunale di Brescia definiva quella motivazione fornita da Di pietro “poco verosimile”.
Ma ciò che è “èpoco verosimile” per tre giudici di un tribunale, diventa il verbo, la verità assoluta, il Vangelo per un gip dello stesso tribunale che aveva il dovere di leggere le motivazioni di una sentenza passata in giudicato e accettata dallo stesso Di pietro.
E’ sempre il tribunale di Brescia a ricostruire anche la famosa storia del prestito del Gorrini a Di Pietro. Secondo il racconto di Rocca, Do Pietro aveva restituito il prestito da 120milioni, ricevuto nel 1989, in tre rate tra il giugno e l’ottobre 1994: 20 milioni in giugno, con quattro assegni circolari; 50 milioni a fine settembre; i restanti 50 milioni all’inizio di ottobre: nell’ultima circostanza il magistrato gli aveva dato assegni intesti a Di Pietro dalla Larus, la casa editrice del suo libretto La costituzione italiana. Diritti e doveri, pubblicato nel settembre 1994. In una intervista all’Unità, Gorrini così spiegava il perché Di Pietro avesse deciso di restituire il prestito cinque anni dopo:

“Intanto non era un prestito. Io [i soldi] glieli avevo dati quattro o cinque anni prima a fondo perduto. Ho aiutato tanta gente. Lui ne aveva bisogno per ristrutturare una casa. Improvvisamente, dopo che ero stato dagli ispettori, arrivò Rocca che mi restituì i soldi.”

Eppure Rocca aveva raccontato di aver consegnato a Gorrini i soldi datigli da Di Pietro più di un mese prima che li stesso Gorrini fosse ascoltato dagli ispettori ministeriali. E quando il giornalista dell’Unità ricorda a Gorrini che, secondo Rocca, Di Pietro non sapeva che quei soldi venivano da lui l’assicuratore replica

“Qualcuno deve aver detto nel frattempo a Rocca di andare a raccontare quelle cose”

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