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L'IGNORANZA UCCIDE L'UOMO, UCCIDIAMO L'IGNORANZA
venerdì 31 agosto 2012
martedì 1 novembre 2011
TAWERGHA. GENOCIDIO NELLA “NUOVA” LIBIA
TAWERGHA. GENOCIDIO NELLA “NUOVA” LIBIA
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9249
DI MARINELLA CORRGGIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Denunce inascoltate fin da giugno. Gli ex “ribelli” di Misurata hanno espulso, derubato (con molte uccisioni) gli abitanti di un’intera città nera vicino Misurata. E a metà settembre Jibril aveva dato via libera
Insieme a Sirte assediata e distrutta, Tawergha, la città dei neri libici, diventa il simbolo della Libia “liberata” grazie alla Nato. Situata a qualche decina di chilometri da Misurata, Tawergha contava circa 30mila abitanti, in gran parte libici di pelle nera: nacque nel XIX secolo come città di transito nel traffico degli schiavi. E “schiavi” (abeed) è l’insulto che più ricorre sui muri della città dopo la conquista in agosto da parte delle truppe dei “ribelli della Nato” provenienti da Misurata. Il suo nome è stato cancellato sul cartello stradale e sostituito da “Nuova Misurata”.
Tawergha è ora disabitata (e molte case incendiate e saccheggiate): i suoi abitanti sono scappati altrove all’avvicinarsi delle forze anti-Gheddafi due mesi fa; le ultime centinaia sono state espulsi in seguito dalle milizie. A decine di migliaia sono adesso sparsi presso parenti e soprattutto in campi profughi improvvisati; di tanti si sono perse le tracce. In molti sono stati arrestati ai check-point o addirittura prelevati dagli ospedali e scomparsi. Non si contano gli assassinati in questa pulizia etnica nella quale l’odio razziale si è mescolato all’accusa ai tawerghani di essere stati pro-Gheddafi e suoi “mercenari” (ma sono libici), perché da quella zona l’esercito libico lanciava gli attacchi contro Misurata.
Risale agli inizi del conflitto la demonizzazione (e molte uccisioni anche con decapitazioni) dei neri libici, combattenti e non, accusati senza prove di crimini e stupri. Tawergha è il genocidio di un’intera città. Il primo a lanciare l’allarme, inascoltato, era stato il…Wall Street Journal il 21 giugno (“Libyan City Thorn by Tribal Feud”; http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304887904576395143328336026.html): uno suo reporter, Sam Dagher, aveva intervistato i comandanti militari di Misrata (schierati con i “ribelli” e la Nato): Ibrahim al-Halbous, per esempio, diceva con chiarezza che una volta conquistata la cittadina, i suoi abitanti avrebbero dovuto fare fagotto, perché “Tawergha non esiste più, c’è solo Misrata”. Altri “ribelli” raccomandavano di impedire ai tawerghani di lavorare e mandare i bambini a scuola a Misrata. Dagher parlava dell’esplodere di un “razzismo che prima del conflitto era latente”. Fra le due città, sui muri le scritte pro-Gheddafi erano state sostituite da moniti tipo “siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri”. Allarmato, il reverendo nero statunitense Jesse Jackson a giugno chiese – ovviamente invano - un’indagine della Corte penale internazionale.
La situazione di Tawergha precipita in agosto. Ricostruiva la vicenda l’inchiesta “Ethnic Cleansing, Genocide and the Tawergha”, di Human Rights Investigation (http://humanrightsinvestigations.org/2011/09/26/libya-ethnic-cleansing-tawargha-genocide/), un piccolo gruppo di ricercatori indipendenti nel campo dei diritti umani, da non confondere con la ben più nota Human Rights Watch – il cui rapporto su Tawergha è del 30 settembre, v. oltre). Grazie ai bombardamenti aerei della Nato e ai missili Grad degli alleati “ribelli”, Tawergha viene presa il 13 agosto (e la Bbc intervista il solito comandante al-Halbous ma “dimentica” di parlare del colore della pelle degli tawerghani). Al Jazeera stessa mostra case distrutte, prigionieri messi in un container di ferro (ma viene impedito di filmarli), un ferito in abiti civili portato via chissà dove e armati che obbligano gli ultimi abitanti a partire. Quando Telesur si reca sul posto “non c’è più nessuno, salvo nella parte antica dove i ‘ribelli’ non ci hanno lasciati entrare; pare che là ci sia ancora qualcuno, e quando escono in cerca di cibo o acqua li catturano”.
HRI richiama la convenzione Onu per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio: all’art. 2 definisce genocidio uno dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, uccidendone membri, danneggiandoli fisicamente o psicologicamente, infliggendo loro condizioni di vita distruttive (…).
A fine agosto Amnesty International (http://www.amnesty.org.uk/news_details.asp?NewsID=19674) denuncia il fatto che decine di migliaia di tawerghani non possono tornare a casa per paura di essere arrestati come è successo a molti, perfino prelevati negli ospedali e poi scomparsi. Anche nei campi dove sono ospitati, si susseguono arresti e sparizioni. Denunce credibili anche di stupri ai danni di donne di Tawergha e di esecuzioni di soldati e volontari arrestati. L’organizzazione indica nei Tawergha un gruppo particolarmente vulnerabile che abbisogna di protezione. Chiede anche ai nuovi governanti di farla finita con l’impunità. Questi ultimi fanno orecchio da mercante su Tawergha.
Il CNT APPROVA LA PULIZIA ETNICA
Intanto, sempre il Wsj riferisce che l’autonominato Primo Ministro Mahmoud Jibril il 18 settembre in un incontro pubblico a Misurata dà il via libera alla cancellazione della città: “Su Tawergha, ritengo che nessuno debba interferire, salvo la popolazione di Misurata. Non possiamo riferirci alle teorie della riconciliazione nazionale usate in Sudafrica, Irlanda o Europa dell’Est”. Grandi applausi e urla “Allah u Akbar”. In quei giorni molte case della cittadina venivano incendiate, “per evitare che ritornino”, spiegava un “ribelle”.
Il 30 ottobre Human Rights Watch (Hrw) riepiloga la tragedia della città nel suo rapporto “Beatings, Shootings, Deaths in Detention of Tawerghans [ 82710 ]” (http://www.hrw.org/news/2011/10/30/libya-militias-terrorizing-residents-loyalist-town). “Le milizie di Misurata terrorizzano gli sfollati da Tawergha –abbandonata, saccheggiata e in parte bruciata - e assicurano che quelli non ritorneranno mai”. Hwr ha intervistato decine di sfollati in tutto il paese, e fra questi 26 detenuti a Misrata e nei dintorni e 35 sfollati a Tripoli, Heisha e Hun. Le denunce, “credibili”, parlano di ferimenti o esecuzioni di persone disarmate, arresti arbitrari e torture su detenuti, fino alla morte in alcuni casi. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, i 15mila tawerghani sono fuggiti in gran parte nella regione Jufra. Nella città di Hun erano arrivate agli inizi di ottobre quattromila persone, ospitate in tre campi, e molte altre nella città di Sokna e nelle campagne circostanti. In seguito circa 5mila persone si sarebbero spostate verso Bengasi o Tripoli, altre a Tarhouna, Khoms o nel Sud.
Il 25 ottobre Hrw è stata testimone, nella Tawergha spopolata, di un saccheggio totale e il giorno dopo ha visto diverse case date alle fiamme, sotto gli occhi delle brigate di armati di Misurata.
Muhammad Grarya Tawergi, un ex coltivatore di datteri, ottant’anni, ha detto a Hrw che i “ribelli” arrivati a Tawergha in agosto hanno obbligato anche le persone non armate a lasciare la casa.
Molti abitanti di Tawergha sostenevano Gheddafi, e centinaia di loro si erano arruolati fra marzo e maggio, durante l’assedio a Misurata. Dopo il cambio di regime è stato un susseguirsi di abusi, arresti arbitrari e persecuzione dell’intera comunità. Il 20 agosto, è stato riferito a Hrw, nella prigione di Misurata un conducente del camion dell’immondizia, Amhamid Muhammad Shtaywey, è stato torturato perché confessasse di aver commesso stupri e alla fine è morto per le torture.
Molti detenuti di Tawergha incontrati nelle diverse prigioni di Misurata, e altre persone incontrate dopo il rilascio, mostrano segni di maltrattamenti e raccontano di torture anche con l’elettricità, per obbligarli a confessare di aver combattuto e di aver stuprato.
Tre addetti sanitari hanno raccontato che il direttore de facto di un ospedale fra Sirte ed Heisha ordinava ai medici di curare per primi i “ribelli” feriti, lasciando stare i neri, “che sono di Tawergha”, i civili di Sirte, i soldati di Gheddafi, le donne. Nella città di Jufra armati di Misurata sono entrati a più riprese nei campi che ospitavano persone di Tawergha per portare via gli uomini. E’ caccia all’uomo, ammettono brigate non di Misurata. Gli sfollati di un campo hanno dato a Hrw la lista di 50 giovani spariti.
La situazione nei campi di Hun è difficilissima. Sovraffollamento, mancanza di servizi, contaminazione delle acque (molti bambini sono già ammalati). La gente non ha più denaro. Le comunità locali aiutano con il cibo ma molto deve essere acquistato nei negozi, e poi cotto con la legna. Si avvicina l’inverno.
E’ un crimine in sé anche aver obbligato un’intera città a fuggire. “Forzare tutti i residenti di Tawergha ad andare via è una punizione collettiva ed è un crimine contro l’umanità” dichiara Hrw, precisando che le autorità dovrebbero processare i soli responsabili dell’assedio a Misrata (e quelli dell’assedio – e peggiore - a Sirte, sul campo opposto? ndr), permettendo ai civili di ritornare a casa.
Marinella Correggia
31.10.2011
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9249
DI MARINELLA CORRGGIA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Denunce inascoltate fin da giugno. Gli ex “ribelli” di Misurata hanno espulso, derubato (con molte uccisioni) gli abitanti di un’intera città nera vicino Misurata. E a metà settembre Jibril aveva dato via libera
Insieme a Sirte assediata e distrutta, Tawergha, la città dei neri libici, diventa il simbolo della Libia “liberata” grazie alla Nato. Situata a qualche decina di chilometri da Misurata, Tawergha contava circa 30mila abitanti, in gran parte libici di pelle nera: nacque nel XIX secolo come città di transito nel traffico degli schiavi. E “schiavi” (abeed) è l’insulto che più ricorre sui muri della città dopo la conquista in agosto da parte delle truppe dei “ribelli della Nato” provenienti da Misurata. Il suo nome è stato cancellato sul cartello stradale e sostituito da “Nuova Misurata”.
Tawergha è ora disabitata (e molte case incendiate e saccheggiate): i suoi abitanti sono scappati altrove all’avvicinarsi delle forze anti-Gheddafi due mesi fa; le ultime centinaia sono state espulsi in seguito dalle milizie. A decine di migliaia sono adesso sparsi presso parenti e soprattutto in campi profughi improvvisati; di tanti si sono perse le tracce. In molti sono stati arrestati ai check-point o addirittura prelevati dagli ospedali e scomparsi. Non si contano gli assassinati in questa pulizia etnica nella quale l’odio razziale si è mescolato all’accusa ai tawerghani di essere stati pro-Gheddafi e suoi “mercenari” (ma sono libici), perché da quella zona l’esercito libico lanciava gli attacchi contro Misurata.
Risale agli inizi del conflitto la demonizzazione (e molte uccisioni anche con decapitazioni) dei neri libici, combattenti e non, accusati senza prove di crimini e stupri. Tawergha è il genocidio di un’intera città. Il primo a lanciare l’allarme, inascoltato, era stato il…Wall Street Journal il 21 giugno (“Libyan City Thorn by Tribal Feud”; http://online.wsj.com/article/SB10001424052702304887904576395143328336026.html): uno suo reporter, Sam Dagher, aveva intervistato i comandanti militari di Misrata (schierati con i “ribelli” e la Nato): Ibrahim al-Halbous, per esempio, diceva con chiarezza che una volta conquistata la cittadina, i suoi abitanti avrebbero dovuto fare fagotto, perché “Tawergha non esiste più, c’è solo Misrata”. Altri “ribelli” raccomandavano di impedire ai tawerghani di lavorare e mandare i bambini a scuola a Misrata. Dagher parlava dell’esplodere di un “razzismo che prima del conflitto era latente”. Fra le due città, sui muri le scritte pro-Gheddafi erano state sostituite da moniti tipo “siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri”. Allarmato, il reverendo nero statunitense Jesse Jackson a giugno chiese – ovviamente invano - un’indagine della Corte penale internazionale.
La situazione di Tawergha precipita in agosto. Ricostruiva la vicenda l’inchiesta “Ethnic Cleansing, Genocide and the Tawergha”, di Human Rights Investigation (http://humanrightsinvestigations.org/2011/09/26/libya-ethnic-cleansing-tawargha-genocide/), un piccolo gruppo di ricercatori indipendenti nel campo dei diritti umani, da non confondere con la ben più nota Human Rights Watch – il cui rapporto su Tawergha è del 30 settembre, v. oltre). Grazie ai bombardamenti aerei della Nato e ai missili Grad degli alleati “ribelli”, Tawergha viene presa il 13 agosto (e la Bbc intervista il solito comandante al-Halbous ma “dimentica” di parlare del colore della pelle degli tawerghani). Al Jazeera stessa mostra case distrutte, prigionieri messi in un container di ferro (ma viene impedito di filmarli), un ferito in abiti civili portato via chissà dove e armati che obbligano gli ultimi abitanti a partire. Quando Telesur si reca sul posto “non c’è più nessuno, salvo nella parte antica dove i ‘ribelli’ non ci hanno lasciati entrare; pare che là ci sia ancora qualcuno, e quando escono in cerca di cibo o acqua li catturano”.
HRI richiama la convenzione Onu per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio: all’art. 2 definisce genocidio uno dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, uccidendone membri, danneggiandoli fisicamente o psicologicamente, infliggendo loro condizioni di vita distruttive (…).
A fine agosto Amnesty International (http://www.amnesty.org.uk/news_details.asp?NewsID=19674) denuncia il fatto che decine di migliaia di tawerghani non possono tornare a casa per paura di essere arrestati come è successo a molti, perfino prelevati negli ospedali e poi scomparsi. Anche nei campi dove sono ospitati, si susseguono arresti e sparizioni. Denunce credibili anche di stupri ai danni di donne di Tawergha e di esecuzioni di soldati e volontari arrestati. L’organizzazione indica nei Tawergha un gruppo particolarmente vulnerabile che abbisogna di protezione. Chiede anche ai nuovi governanti di farla finita con l’impunità. Questi ultimi fanno orecchio da mercante su Tawergha.
Il CNT APPROVA LA PULIZIA ETNICA
Intanto, sempre il Wsj riferisce che l’autonominato Primo Ministro Mahmoud Jibril il 18 settembre in un incontro pubblico a Misurata dà il via libera alla cancellazione della città: “Su Tawergha, ritengo che nessuno debba interferire, salvo la popolazione di Misurata. Non possiamo riferirci alle teorie della riconciliazione nazionale usate in Sudafrica, Irlanda o Europa dell’Est”. Grandi applausi e urla “Allah u Akbar”. In quei giorni molte case della cittadina venivano incendiate, “per evitare che ritornino”, spiegava un “ribelle”.
Il 30 ottobre Human Rights Watch (Hrw) riepiloga la tragedia della città nel suo rapporto “Beatings, Shootings, Deaths in Detention of Tawerghans [ 82710 ]” (http://www.hrw.org/news/2011/10/30/libya-militias-terrorizing-residents-loyalist-town). “Le milizie di Misurata terrorizzano gli sfollati da Tawergha –abbandonata, saccheggiata e in parte bruciata - e assicurano che quelli non ritorneranno mai”. Hwr ha intervistato decine di sfollati in tutto il paese, e fra questi 26 detenuti a Misrata e nei dintorni e 35 sfollati a Tripoli, Heisha e Hun. Le denunce, “credibili”, parlano di ferimenti o esecuzioni di persone disarmate, arresti arbitrari e torture su detenuti, fino alla morte in alcuni casi. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, i 15mila tawerghani sono fuggiti in gran parte nella regione Jufra. Nella città di Hun erano arrivate agli inizi di ottobre quattromila persone, ospitate in tre campi, e molte altre nella città di Sokna e nelle campagne circostanti. In seguito circa 5mila persone si sarebbero spostate verso Bengasi o Tripoli, altre a Tarhouna, Khoms o nel Sud.
Il 25 ottobre Hrw è stata testimone, nella Tawergha spopolata, di un saccheggio totale e il giorno dopo ha visto diverse case date alle fiamme, sotto gli occhi delle brigate di armati di Misurata.
Muhammad Grarya Tawergi, un ex coltivatore di datteri, ottant’anni, ha detto a Hrw che i “ribelli” arrivati a Tawergha in agosto hanno obbligato anche le persone non armate a lasciare la casa.
Molti abitanti di Tawergha sostenevano Gheddafi, e centinaia di loro si erano arruolati fra marzo e maggio, durante l’assedio a Misurata. Dopo il cambio di regime è stato un susseguirsi di abusi, arresti arbitrari e persecuzione dell’intera comunità. Il 20 agosto, è stato riferito a Hrw, nella prigione di Misurata un conducente del camion dell’immondizia, Amhamid Muhammad Shtaywey, è stato torturato perché confessasse di aver commesso stupri e alla fine è morto per le torture.
Molti detenuti di Tawergha incontrati nelle diverse prigioni di Misurata, e altre persone incontrate dopo il rilascio, mostrano segni di maltrattamenti e raccontano di torture anche con l’elettricità, per obbligarli a confessare di aver combattuto e di aver stuprato.
Tre addetti sanitari hanno raccontato che il direttore de facto di un ospedale fra Sirte ed Heisha ordinava ai medici di curare per primi i “ribelli” feriti, lasciando stare i neri, “che sono di Tawergha”, i civili di Sirte, i soldati di Gheddafi, le donne. Nella città di Jufra armati di Misurata sono entrati a più riprese nei campi che ospitavano persone di Tawergha per portare via gli uomini. E’ caccia all’uomo, ammettono brigate non di Misurata. Gli sfollati di un campo hanno dato a Hrw la lista di 50 giovani spariti.
La situazione nei campi di Hun è difficilissima. Sovraffollamento, mancanza di servizi, contaminazione delle acque (molti bambini sono già ammalati). La gente non ha più denaro. Le comunità locali aiutano con il cibo ma molto deve essere acquistato nei negozi, e poi cotto con la legna. Si avvicina l’inverno.
E’ un crimine in sé anche aver obbligato un’intera città a fuggire. “Forzare tutti i residenti di Tawergha ad andare via è una punizione collettiva ed è un crimine contro l’umanità” dichiara Hrw, precisando che le autorità dovrebbero processare i soli responsabili dell’assedio a Misrata (e quelli dell’assedio – e peggiore - a Sirte, sul campo opposto? ndr), permettendo ai civili di ritornare a casa.
Marinella Correggia
31.10.2011
mercoledì 5 ottobre 2011
OOPArt – Nanospirali, tecnologia di 20.000 anni fà-
Tecnologia Inspiegabile
La nanotecnologia è un ramo scientifico, ancora oggi poco sviluppato, che si occupa del controllo della materia su scala microscopica, dell’ordine dei nanometri (ossia milionesimi di millimetri), allo scopo di realizzare le cosiddette nanomacchine. Pare che alcuni geologi russi abbiano scoperto, all’interno di campioni di roccia prelevati sui monti Urali, delle microscopiche spirali metalliche risalenti, pare a più di 100.000 anni fa. Potrebbe trattarsi della prova che il nostro pianeta ospitò, in passato, una civiltà molto più avanzata della nostra.
La storia delle Nanospirali
Il 1992 fu l’anno in cui questi misteriosi reperti vennero segnalati per la prima volta: furono scoperti da un gruppo di geologi russi impegnati in alcune ricognizioni alla ricerca di metalli sui monti Urali. I microscopici oggetti destarono immediatamente l’attenzione degli scienziati, che ne trovarono diverse centinaia, soprattutto nei pressi dei corsi d’acqua, quale il fiume Balbanju, il Kozim (Koshim), il Narada e su due affluenti minori, il Vtvisty e il Lapkhevozh; la maggior parte fu rinvenuta a profondità fra i 3 ed i 12 m. Le dimensioni dei minuscoli oggetti vanno dai 3 cm agli 0.003 mm (tre centesimi di millimetro); i più grandi sono composti da rame puro, menti i più piccoli presentano una superficie liscia o parzialmente forata in Tungsteno con nuclei in Tungsteno o Molibdeno. Per poter osservare la regolarità della loro struttura spiraliforme è necessario osservarli al microscopio. Tale regolarità dovrebbe escludere un’origine naturale.
Oggi è possibile realizzare questo tipo di nanospirali a livello industriale; questa tecnologia è disponibile dalla metà degli anni sessanta del secolo scorso. Il fatto curioso è che le spirali scoperte in Russia sono state rinvenute all’interno di strati geologici datati tra i 20.000 e i 318.000 anni fa. I sostenitori dell’ufologia hanno subito eletto le nanospirali a prova inconfutabile che la Terra fu, in passato, visitata da una razza aliena tecnologicamente avanzata. Gli scettici sostennero che i risultati delle analisi derivavano da misurazioni errate o, addirittura, falsificate; ma alcuni anni dopo, nel 1995, venne organizzata una nuova spedizione dal giornalista e ricercatore Valerie (Valerii) Ouvarov e dalla geologa Elena Matveyeva: vennero portate alla luce nuove spirali da uno strato sedimentario del fiume Balbanju vecchio di 100.000 anni. Le analisi vennero eseguite in altri laboratori, ma diedero gli stessi risultati, allontanando, così, l’ipotesi della frode.
http://ilfattaccio.org/2011/10/01/oopart-nanospirali-tecnologia-di-20-000-anni-fa/
Un'impronta di 500 milioni di anni? di Mattera Antonio
La più antica impronta fossile fu trovata nel giugno 1968 da William J. Meister, un collezionista di fossili. Quest’impronta è stata stimata antica di circa 300-600 milioni di anni.
Un sandalo che schiaccia un trilobite: è questa la prova che ci sono state precedenti civiltà sulla terra, o visitatori da altri mondi?
Meister fece questa non comune scoperta durante una spedizione di ricerca di rocce e fossili ad Antilope Spring, 43 miglia ad ovest di Delta, Utah.
Egli era accompagnato dalla moglie e da due figlie.La comitiva aveva già scoperto molti piccoli fossili di trilobiti quando Meister spaccò una lastra di roccia spessa più di due pollici con il suo martello e scoprì l’eccezionale impronta.
"la roccia si aprì come un libro " Meister ebbe modo poi di dire " su di un lato dell’impronta di un uomo".
I trilobiti erano piccoli animali invertebrati marini, antenati dei granchi e dei gamberetti, che fiorirono per circa 320 milioni di anni prima di incominciare ad estinguersi 280 milioni di anni fa. Si pensa che l’essere umano sia comparso tra 1 e 2 milioni di anni fa e che abbia incominciato ad indossare scarpe e sandali da solo qualche migliaio di anni.
Il sandalo che schiacciò il trilobite era lungo 10,5 pollici: il calcagno è leggermente impresso più della suola, come un’impronta di scarpe umane deve essere. Meister prestò la roccia a Melvin Cook, un professore di metallurgia dell’Università dello Utah, il quale lo avvisò che si sarebbe fatto carico di mostrare il manufatto ai suoi colleghi geologi.
L’impossibilità di trovare geologi disposti ad esaminare l’ingombrante impronta, costrinse Meister a pubblicare la notizia su un giornale locale,il "The desert news". In non molto tempo la notizia divenne di diffusione nazionale.
Il 20 luglio 1968, il sito di Antilope Spring, fu esaminato da prof Clifford Burdick, un geologo di Tucson, Arizona. Egli ben presto trovò il segno di un piede di bambino impresso in un letto di roccia.
Burdick disse:" Il segno era di circa 6 pollici in lunghezza, con le dita estese, come se il ragazzo non avesse mai calzato scarpe, le quali, al contrario, comprimono generalmente le dita. Queste invece non appaiono essere molto inarcate, e il dito grande non è prominente"
Il dottor Burdick stabilì:" Su una sezione trasversale la struttura della roccia sporge su strati fini e piani. Dove le dita pressarono nel materiale morbido, gli strati sono schiacciati verso il basso dall’orizzontale, indicando un peso che ha pressato nel fango.."
Nell’agosto del 1968 Mr. Dean Bitter, un insegnante di salt Lake city, dichiarò di aver scoperto altre due impronte di scarpe o sandali ad Antilope Spring. Secondo il prof Cook, nessun trilobite era presente in quest’impronta, ma un piccolo trilobite fu scoperto vicino alla stessa roccia, indicando che la piccola creatura marina e il viandante che girovagava con sandali ai piedi erano contemporanei.
http://www.acam.it/impronta.htm
lunedì 3 ottobre 2011
Dare corpo alle parole
http://www.centrofondi.it/wp/?p=590#more-590
« … il riconoscimento della dignità specifica e dei diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della società umana è la base di libertà, giustizia e pace nel Mondo. »
Questa bellissima frase è il preambolo alla Dichiarazione Universale dei diritti umani scritta nel 1948 affinché si mettesse fine agli orrori perpetrati nella seconda guerra mondiale.
Il primo articolo di questo fondamentale documento recita: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
La stessa cosa è riportata nella nostra costituzione all’art.3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Il secondo comma offre anche la strada da percorrere per evitare ingiustizie
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Questi principi fanno pensare che il benessere dell’essere umano sia prioritario, anzi secondo la Dichiarazione Universale dei diritti umani questi devono agire fra di loro con spirito di fratellanza e addirittura la Costituzione italiana si spinge a dichiarare che la repubblica debba rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale. Ovviamente economia, politica, legge, cultura devono essere subordinati a questo fine concorrendo a creare il benessere dell’essere umano.
Se guardiamo dopo più di 60 anni i risultati, ci deve essere evidentemente qualcosa che non ha funzionato: un miliardo e trecento milioni di persone ancora oggi sono al limite della sopravvivenza alimentare, la gran parte della ricchezza mondiale è concentrata nelle mani di poche famiglie, le risorse della terra sono state spremute più in questi decenni che nei millenni precedenti e la maggioranza della popolazione del pianeta arranca per mettere insieme tre pasti al giorno.
A ben vedere ci deve essere stato un settore che avrebbe dovuto lavorare per il benessere dell’umanità e invece ha dominato sugli altri e addirittura oggi è il padrone assoluto. Inutile dire che quel settore è proprio l’economia. L’economia domina la vita di ogni singolo abitante di questo pianeta, ne condiziona i comportamenti, determina la vita e la morte di intere popolazioni e ha assoggettato la politica lavorando sulle debolezze umane e creato leggi a proprio uso e consumo.
L’economia quindi è al centro e non l’essere umano come invece era nelle intenzioni dei padri costituenti e della dichiarazione dei diritti dell’umanità.
Ma l’economia è come il mercato, un’invenzione, uno strumento che permette ad uomini di bassi istinti di soddisfare la propria sete di sopraffazione e di predominio. Il capitalismo ha sempre pensato che se ognuno cura il suo sano egoismo tutti ne traggono un beneficio, ma non è così quando il gioco è truccato, quando pochi decidono anticipatamente mosse a cui gli altri dovranno assoggettarsi.
In questi anni abbiamo cercato di mettere in guardia, spiegare il sistema del debito infinito, dell’inevitabilità di un collasso del sistema che oggi puntualmente sta arrivando,è sotto gli occhi di tutti. Lo strumento per arrivare a questa dittatura assoluta dell’economia è stato il debito e più ancora il debito collegato all’emissione monetaria che poi automaticamente ha contagiato il settore privato delle famiglie e delle imprese. Prima si sono incentivati i debiti, anche in modi truffaldini e poi quando è arrivato il punto di non ritorno, il fatidico 120%, esattamente uguale al 1992, è scattata la trappola mortale e la banca centrale ha imposto al governo addirittura le misure da prendere, questo la dice lunga su quello che ancora si ostinano a chiamare sistema democratico.
La cosa da capire è la bravura con cui ci hanno attirato in questa allucinazione che fa vedere un mondo totalmente irreale facendoci solo giocare alle loro regole. Addirittura i carcerieri sono i osannati come i salvatori dell’umanità e sono rimasto stupefatto come i mass media hanno applaudito alla decisione del governo tedesco di rafforzare il fondo salva stati. Spieghiamoci bene: l’euro è un marco tedesco con un nome diverso e tutto è costruito sulla efficienza tedesca, i popoli latini che questa efficienza non hanno, son caduti nella trappola e dopo 10 anni hanno consegnato tutte le loro quote di esportazione nelle mani di Germania e Francia. Lo stesso copione dell’Argentina quando ancorò la sua valuta al dollaro nel 1990, esattamente 10 anni dopo si consumò il saccheggio. Lo stesso copione ripetuto molte volte e conosciuto anche nel nostro paese con la famigerata “quota 90”.
Allora se voi foste il beneficiario di questo gioco, permettereste forse all’incauto paese di uscire da quella che è una vera e propria annessione finanziaria che in altri tempi avrebbe richiesto una costosa guerra? Barroso lo ha detto già nel 2010 e lo ha ribadito qualche giorno fa, di uscire dall’euro non se ne parla nemmeno.
Il fatto che la Germania oggi sia vista come colei che salva l’euro ovviamente offre tutta una serie di vantaggi infatti può avere in contropartita tutto il cuore produttivo dei paesi in difficoltà e praticamente con i soldi del surplus commerciale delle esportazioni che nel tempo ha sottratto ai paesi meno accorti.
Ovviamente l’unica strada è svincolarsi da un cappio che si sta facendo sempre più stretto, uscire dall’euro, anche se era meglio non entrarci nemmeno. Il problema però anche ammesso che ci facciano uscire dall’euro, è ritornare ad una lira che comunque si poteva svalutare aumentando esportazioni e commesse dall’estero, ma che ne aveva combinate di tutti i colori mettendoci in parecchi pasticci con la complicità di politici e banchieri centrali. Il ritorno ad una lira così concepita allontanerebbe solamente di poco tempo altre catastrofi.
Il fatto da comprendere è che la moneta fino a quando sarà collegata ad un debito, fino a quando sarà anche in mano pubblica, ma gestita da politici di questa levatura, condurrà sempre agli eccessi di oggi e non potrà MAI essere strumento di benessere per l’umanità.
Una dimostrazione pratica? Il livello del debito mondiale che ha superato anche quello raggiunto dal 2007
Un vecchio adagio popolare dice che più in alto si va più in basso bisognerà scendere….
Allora? Allora bisogna crescere noi dalla base, iniziare a comprendere i meccanismi e non prestarci più a firmare cambiali in bianco a chi ci dovrà rappresentare. Ho già scritto che chi verrà dopo Berlusconi sarà da guardare con timore perché svenderà quello che rimane di questo grande paese e quindi dobbiamo in questo momento aumentare ulteriormente il nostro livello di guardia affinché questo non accada, ma serve l’impegno concreto di tutti e questa volta non ci sono scuse che tengano del tipo: tengo famiglia e devo portare a casa la pagnotta; son tutti ladri e per questo uno vale l’altro; è inutile fare niente perché siamo troppo piccoli e così via.
Qui si gioca il nostro futuro e anche chi si tira indietro sarà responsabile come chi sarà parte attiva della distruzione….ma si sa che dopo una distruzione si ricostruisce, ma tutto dipende come si ricostruirà se si permetterà ancora all’economia di fagocitare l’umanità di cui doveva essere al servizio, oppure confinarla al ruolo di mero strumento di benessere e di equità sociale.
sabato 1 ottobre 2011
Pallante: debito creato solo per drogare la crescita suicida
Meno e meglio: è l’unica soluzione, per uscire dalla spirale del debito. Che non è un incidente di percorso, tutt’altro: il debito è stato incoraggiato a tavolino per indurre i consumatori a comprare merci che non si sarebbero potuti permettere. Obiettivo: smaltire la marea di nuove merci prodotte a ritmo vorticoso da tecnologie industriali sempre più avanzate e diffuse in tutto il mondo grazie alla globalizzazione. Il debito serviva a questo: ad assorbire l’enorme valanga planetaria di merci, evitando una “crisi di sovrapproduzione”. Il peccato originale ha un nome sulla bocca di tutti: crescita. Non è la soluzione, è il problema: la crescita è cieca, perché si basa solo sulla quantità, trascurando di selezionare beni e servizi realmente utili. La crescita vive di sprechi e genera Pil inutile, gonfiato dalla droga pericolosa del debito.
Ne è convinto Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: «Il debito pubblico non è un problema di cui è stata sottovalutata la gravità», sostiene in un intervento presto disponibile sul blog di Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice. Il debito, spiega Pallante, è addirittura «il pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica», perché il ricorso al credito «è indispensabile per continuare a far crescere la produzione di merci». Si tratta di una scelta «consapevolmente perseguita con una totale unità d’intenti dai governi di destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati: non a caso – continua Pallante – la crescita dei debiti pubblici ha avuto una forte accelerazione in seguito alle misure di politica economica adottate dai governi dopo la crisi del 2008 per rilanciare la domanda attraverso le opere pubbliche e il sostegno ai consumi privati».
Diversamente, osserva Pallante, non si capirebbe come mai negli ultimi anni tutti i paesi industrializzati hanno accumulato debiti pubblici sempre più consistenti, fino a raggiungere i valori record del 2010: dall’80% del Pil nel caso del Regno Unito, fino al 225% del Giappone. Se negli Usa il debito pubblico sfiora il tetto del prodotto interno lordo, Francia e Germania superano di poco l’80% mentre il debito dell’Italia rappresenta il 119% del Pil: peggio di noi c’è solo la Grecia, col suo drammatico 142%. A fine anno, il debito italiano raggiungerà i 2.000 miliardi di euro, a fronte di un Pil 2010 fermo a 1.500 miliardi. Il nostro debito pubblico è pari alla somma di quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Islanda.
Per capirci: il deficit greco, su cui si è scatenata la speculazione finanziaria, è di soli 340 miliardi di euro. Ben diversi i volumi di casa nostra: «Per pagare gli interessi sul debito, ogni anno l’Italia emette nuovi titoli per un valore di 75 miliardi di euro, pari al 10% della spesa pubblica e al 5% per cento del Pil». Per contro, aggiunge Pallante, il quadro completo lo si ottiene solo sommando il debito pubblico a quello privato, delle famiglie e delle aziende. Sulla base di questo mix realistico, col 218% del rapporto debito-Pil, l’Italia non sfigura rispetto al 286% dell’Irlanda, al 250 del Portogallo, al 230 di Spagna e Olanda e persino al potente Regno Unito, il cui debito aggregato raggiunge il 245% del Pil. A fronte di queste cifre, conclude Pallante, non si può escludere la possibilità che gli Stati più indebitati decidano di troncare la spirale degli interessi passivi decidendo di fallire, trascinando al fallimento le banche che hanno sottoscritto i loro titoli e alla rovina i risparmiatori che hanno depositato il loro denaro nelle banche.
Ma perché gli Stati e le amministrazioni locali spendono sistematicamente cifre superiori ai loro introiti? Perché il sistema bancario induce le famiglie a spendere cifre superiori ai loro redditi, magari con consigli interessati e specifiche linee di credito al consumo? «La risposta è intuitiva: perché la crescita della produzione di merci ha raggiunto un livello tale che se non si spendesse più di quello che sarebbe consentito dai redditi effettivi, crescerebbero le quantità di merci invendute e si scatenerebbe una crisi di sovrapproduzione in grado di distruggere il sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci». Secondo gli economisti, per ridurre il debito pubblico occorre stimolare la crescita del Pil, perché se cresce la produzione di merci aumenta anche il gettito fiscale. Per favorire la crescita, lo Stato ha due strade: ridurre le tasse, per incoraggiare i consumi, o incrementare la spesa pubblica. «Ma in entrambi i casi, il debito pubblico aumenta: per ridurlo, attraverso la crescita, bisogna aumentarlo!».
In realtà l’Europa punta su un’altra strada, quella che avrà un impatto durissimo sulla società: il taglio della spesa pubblica, fino alla prospettiva dell’inserimento nelle Costituzioni dell’obbligo del pareggio di bilancio. Problema: tartassando i consumatori, il Pil non potrà certo crescere. Secondo Pallante, neppure il Fondo Monetario Internazionale ha più soluzioni: basti pensare che la direttrice, Cristine Lagarde, ha appena proposto di schiacciare contemporaneamente il pedale del freno e quello dell’acceleratore: ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse, e al tempo stesso favorire l’aumento della domanda mediante l’aumento della spesa pubblica e/o la diminuzione delle tasse. «Il fatto è che la crisi in corso non è congiunturale, ma di sistema, e gli strumenti tradizionali di politica economica non funzionano più».
In virtù della recente globalizzazione dei mercati e della concorrenza internazionale, lo sviluppo tecnologico ha determinato un eccesso di capacità produttiva che cresce di anno in anno: «Macchinari sempre più potenti producono in tempi sempre più brevi quantità sempre maggiori di merci, con un’incidenza sempre minore di lavoro umano per unità di prodotto». Si tratta di tecnologie che richiedono costi d’investimento molto alti, alla portata solo di grandi società in grado di operare sul mercato mondiale: multinazionali che non possono rimanere ferme perché subirebbero forti danni economici in termini di ammortamento dei capitali e di mancati guadagni: per cui «devono lavorare a pieno regime, e tutto ciò che producono deve essere acquistato anche se non ce n’è bisogno».
Se l’offerta in crescita esplosiva supera di gran lunga la domanda, la prima conseguenza è la disoccupazione, che a sua volta riduce ulteriormente la domanda. Oltre a gonfiare i debiti pubblici, continua Pallante, proprio la crescita ha seminato il panico sul fronte occupazionale: in Spagna, dove dal 2007 al 2010 la percentuale dei disoccupati è cresciuta dall’8,3 al 20% e quasi un giovane su due è senza lavoro, secondo calcoli prudenziali ci sono 765.000 immobili invenduti. E nella piccola Irlanda, dove negli stessi anni la disoccupazione è galoppata dal 4,6 al 13,7%, gli immobili invenduti sono 300.000. Se le nuove tecnologie tagliano i posti di lavoro e i redditi non bastano ad acquistare le merci, ecco che «l’unico modo per incrementare la domanda è l’indebitamento».
La scienza del debito, dunque, per tenere in piedi ancora per un po’ una economia totalmente drogata, dal destino ormai segnato. Da una parte gli incentivi alle famiglie verso carte di credito, rate e mutui, e dell’altra il via libera al deficit pubblico truffaldino: in cima alla lista le cosiddette grandi opere, faraoniche e devastanti, per lo più inutili o comunque bocciate da qualsiasi rapporto costi-benefici, ma comodissime per spartire denari all’interno della casta di potere che accomuna politici, imprenditori e banchieri. Prima grandi cantieri, e poi grandi cattedrali nel deserto finanziate a spese dei cittadini e poi magari cedute a società “amiche”. Nasce anche da lì la privatizzazione selvaggia delle aziende pubbliche preposte alla gestione dei servizi sociali come acqua, energia e trasporti: si svendono i “gioielli di famiglia” proprio per ridurre l’entità colossale dei debiti contratti per realizzare le grandi opere.
Altra voce decisiva nel debito iniquo: la spesa militare. Già abnorme, si è gonfiata a dismisura dopo il crollo del Muro di Berlino con la nuova strategia “imperiale” statunitense che ha sparso eserciti e seminato guerre in tutto il mondo. Strategia ulteriormente accelerata dalla propaganda securitaria dopo l’attentato dell’11 Settembre. Un pretesto, per mettere le mani sulle regioni-chiave del pianeta, come quelle petrolifere. Peccato che l’aumento esponenziale delle spese per gli armamenti abbia progressivamente ridotto i vantaggi economici iniziali apportati dal controllo dei flussi di petrolio. Secondo Pallante, si comincia a delineare «una situazione che presenta inquietanti analogie con quella che portò alla caduta dell’Impero Romano, quando le spese militari per tenere sotto controllo le province cominciarono ad essere superiori al valore delle risorse che se ne ricavavano».
Come bloccare la spirale dei debiti pubblici? «Bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere tutte le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica». In realtà sono tre aspetti dello stesso problema, insiste Pallante: «Non bisogna essere particolarmente intuitivi per capire che il sistema di potere fondato sull’alleanza strategica tra partiti politici otto-novecenteschi e grandi imprese non prenderà queste decisioni perché ne verrebbe travolto e nessun potere si fa da parte se non è costretto da una forza maggiore alla sua». Problema: ancora non esiste un blocco di potere alternativo in grado di scalzare l’alleanza che ha prodotto la catastrofe della crescita, «quindi, non c’è possibilità di superare la crisi in corso, che è destinata ad aggravarsi progressivamente e a concludersi con un crollo rovinoso».
Sempre secondo Pallante, tutto lascia credere che questo esito sia ormai inevitabile: ormai sembra solo una questione di tempo. «Se la prima a precipitare sarà la crisi climatica, sarà difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verrà ritardata dalla crisi economica o dalla crisi energetica, coloro che non si sono lasciati abbindolare dalla gigantesca opera di disinformazione e propaganda svolta dai mass media, e sono più di quanti si creda, possono evitare di rimanere sepolti dalle macerie». La via d’uscita? «Occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci, organizzando reti di economia, di produzione e di socialità alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori in cui insistono». La chiave? Lavoro utile. «La decrescita abbatte il Pil ma produce occupazione qualificata, per produrre beni e servizi selezionati, realmente necessari». Ristrutturazione energetica dell’edilizia, energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti, filiere corte alimentari e industriali, in un’ottica territoriale, distrettuale. Meno trasporti, meno costi, meno sprechi. Diminuirà il Pil? Ne saremo felici. E lavoreremo tutti.
venerdì 30 settembre 2011
Dimostrazione del Funzionamento del RFID Microchip in un Centro Commerciale
http://www.youtube.com/watch?v=5hjD95uO_fg&feature=player_embedded
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